All’interno della società moderna, come nelle associazioni di volontariato, sembrano scomparse, o quanto meno fra di loro più lontane, collaborazione e interdipendenza personale e sociale quasi che il rapporto con l’altro (il collega) sia un’azione meccanica più che un complemento di se stessi. Se volete, fatelo entrare in un discorso di etica, anche interna al nostro mondo di volontari ma è valido anche nel mondo profit, io credo che questi comportamenti dovrebbero essere insiti in noi, derivanti dall’impostazione che ciascuno riceve, a partire dalla propria famiglia.
Per vivere in serenità con sé e con gli altri (cosa alquanto difficile), dobbiamo imparare a riuscire ad identificarci con le altre persone attraverso la nostra immaginazione e a permettere agli altri di identificarsi con noi, quasi in un processo di osmosi.
Non sempre è così e ciò trova come primo ostacolo l’egoismo che ci toglie talvolta anche l’immaginazione e spesso nelle Associazioni complesse è più che mai frequente.
Rousseau sosteneva che «prendersi cura degli altri è ciò che ci rende pienamente umani. Dipendiamo gli uni dagli altri non tanto per la nostra sopravvivenza, quanto per il nostro essere vero e proprio».
Un esempio di come oggi si vive, sta nel fatto che si fa molta resistenza a questo fondamento, come se l’aver bisogno degli altri fosse un atto di debolezza. Solo agli anziani, ai malati, ai bambini, ai feriti, ai diversamente abili è dato il permesso di dipendere dagli altri, come se l’indipendenza dal punto di vista dell’autosufficienza e dell’autonomia fosse una virtù cardinale.
Ciò porta inevitabilmente all’individualismo e in una società complessa e in perenne competizione non può che produrre egoismi, dimenticando che l’uomo è un animale sociale che ha bisogno di costruire sé e il suo essere in interdipendenza con altri.
A tal proposito anche gli storici alfieri della fiducia in se stessi ammettono che nell’uomo è innato il bisogno delle altre persone, sia per comunicare che per quegli atti di gentilezza che l’uomo non può produrre da sé, ma che tutti noi abbiamo bisogno di ricevere.
Rapporti interpersonali sviluppati attraverso la comunicazione e il dialogo; la gentilezza nei gesti quotidiani sono atti spontanei e naturali se non combattuti dall’altra faccia della medaglia che è la crudeltà, l’aggressività e l’individualismo.
Colui che viene sottoposto a pressioni costanti, infatti, si estranea e si isola o reagisce con aggressività: ne sono un esempio tipico i diversi casi di bullismo che tutti i giorni leggiamo sui giornali.
Chi è stato represso, o crede di essere stato represso o “non accettato” dal gruppo nelle vicende della sua vita, diventa a suo volta repressore. La paranoia prospera quando si cerca poi dei capri espiatori, auto ingannando se stessi e sacrificando i nostri sentimenti come la gentilezza e l’interdipendenza.
Tutta questa mia lunga riflessione su qualcosa di difficilmente tangibile, vuole indurre a riflettere su come intendiamo i rapporti con gli altri (soci, colleghi, assistiti ecc) Spesso all’interno dei nostri gruppi sociali cresce la cultura del cinismo, con comportamenti duri, alimentati da falsi miti, spesso creati per emulazione dai media che sembrano far trionfare il duro e puro, ove il comportamento “ mors tua vita mea” tra i quadri dirigenti e i volontari non sono così infrequenti, ove il mandato affidato dalla base associativa o dalla dirigenza è visto come a vita o come indispensabile per gli “altri” – troppo spesso ho sentito dire «ma come faranno senza di me» –, o peggio costruendo un sistema organizzativo e di lavoro ove il proprio ruolo è cardine di funzionamento. In realtà questo spesso può diventare un imbuto quasi sempre soffocando chi può portare innovazione: si agisce spesso per gelosia, per poi ipocritamente dichiarare che tali atteggiamenti minano un “sistema che funziona”.
Le associazioni non devono essere di carta e di timbri: non critico la burocrazia che, anzi, è funzionale e garante di fronte a tanti di noi che chiedono maggiore trasparenza, ma spesso se ne abusa. C’è sempre qualcuno sopra di noi che ha il potere di vietarci qualcosa, che deve concedere un’autorizzazione o apporre un timbro anche in atti non economici.
Ora vi domanderete anche chi condivide il mio pensiero: cosa c’entra l’interdipendenza, la gelosia, la gentilezza, l’aggressività con il nostro quotidiano?
Il vortice delle attività, le difficoltà delle organizzazioni no profit e profit complesse e che si auto avvitano in se stessi per mantenere in vita vecchi stereotipi, trovano spesso in alleati coloro che hanno bisogno di “sentirsi” qualcuno e che trovano in talune organizzazioni la strada più facile.
Per mantenere lo status quo, vengono utilizzati proprio i metodi e i mezzi sopra descritti, ove l’individualismo diventa imperante e chi la pensa diversamente viene isolato.
Quello che manca è di cui dobbiamo riappropriarci è il dialogo, il confronto, la condivisione. Quante volte ho sentito parlare Presidenti e Dirigenti contro Volontari e quadri direttivi e ad aiutare lo scontro è proprio la mancanza di dialogo.
Il mio invito è che si parli di più, ci si confronti di più, si condivida di più e che gli scontri non nascano per il gusto o il sapore del potere, che il gergo utilizzato nella nostra epoca sia corretto, gentile e non volgare. Un gruppo sociale come un associazione deve essere vista come esempio di trasparenza, efficienza e magari... di lungimiranza.
Basta con incontri più politici che pratici dove la prosopopea e la retorica sono imperanti. Richiamiamoci ai fatti, mettiamo al centro dei nostri discorsi, le azioni, il modo di essere, il modo di fare e soprattutto la capacità di condividere per far crescere insieme la Società: ciò ci aiuterà a esser meno egocentrici e materialistici, trovando nel dialogo la risposta ai nostri bisogni. Questo comportamento deve esser proprio di chi ha qualche capello bianco a favore dei più giovani, adempiendo a uno dei compiti fondamentali del convivere in modo civile.