Blog di Dante Paolo Ferraris

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Boat people dell'adriatico

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Profughi AlbaniaCorreva l'anno 1991 quando l'Agenzia Ansa diede notizia dell'arrivo di 1700 profughi albanesi in Piemonte che trovarono accoglienza temporanea in due caserme piemontesi: 800 furono ospitati alla "Colli di Felizzano" di Asti, mentre 900 furono sistemati alla "Pietro Mazza" di Casale Monferrato (AL).
Il Presidente della Giunta Regionale, G. P. Brizio, invitò tutte le strutture pubbliche e private a fare il possibile per garantire ai profughi una permanenza dignitosa.
Al fine di fronteggiare la grave emergenza connessa all'affluenza dei cittadini albanesi, alloggiati nel centro di accoglienza di Casale Monferrato, la "Caserma Mazza", la Prefettura di Alessandria dispose l'applicazione dei benefici di legge di diverso personale volontario, che poteva così assentarsi dal posto di lavoro per impegnarsi nell'assistenza a questi profughi.
A Casale Monferrato il contingente dei profughi, composto da oltre 800 persone, arrivò il 14 marzo.
In base alle richieste della Prefettura, mi ritrovai impegnato all'interno del centro di accoglienza in una attività di assistenza sanitaria e sociale.
Il campo gestito dal Comando Militare "Centauro" godeva del supporto per l'organizzazione dell'assistenza di molti volontari, suddivisi in vari turni per tutta la durata del campo stesso.
I volontari erano anche impegnati nella ricerca e nella raccolta dei materiali necessari al centro d'accoglienza: vestiario, prodotti per l'igiene personale, giochi per i bambini e passatempi attraverso raccolte mirate, nonché impegnati a supportare un più preciso censimento della popolazione albanese.
Il lavoro svolto dai volontari fu encomiabile, non limitandosi solo al personale infermieristico impiegato nell'ambulatorio, ma anche alla gestione dei magazzini vestiario, al controllo delle camerate, al ricongiungimento dei nuclei familiari, al controllo cucine e mensa nelle ore di colazione, pranzo e cena oltre al servizio ambulanze.
Dopo il censimento risultarono presenti nel centro 850 profughi di cui 711 maschi e 139 femmine.
Dai dati ritrovati dopo tanto tempo in un pezzettino di carta, raccolti insieme alle foto di quell'esperienza, risultavano 58 minori maschi senza famiglia e 5 minori femmine senza famiglia.
Tutti i nuovi arrivati furono sottoposti da parte dell'USL 76 di Casale Monferrato ad una vaccinazione di massa concordata con l'Autorità Sanitaria Militare, con la vaccinazione antitifica (sopra l'anno di età), la vaccinazione antimeningococcica (sopra i 3 anni escluse le donne gravide), la vaccinazione antidifterica (da 4 mesi a 5 anni) e la vaccinazione antitetanica (dai 5 ai 14 anni).
Inoltre, visto il gran numero di casi di ectoparassitosi nei profughi, vennero organizzate disinfezioni di massa, svoltesi su tutta la popolazione presente.
I primi 345 profughi arrivarono a Casale Monferrato il 14 marzo alle ore 06.45, su un treno partito da Brindisi 14 ore prima.
Quando giunse il momento di accoglierli, alla stazione ferroviaria di Casale Monferrato, fu predisposto un imponente cordone di sicurezza: Polizia, Carabinieri, Vigili Urbani ed Esercito.
I profughi erano visibilmente stanchi, ma consapevoli di essersi lasciati alle spalle la paura di un'attraversata difficile e pericolosa, a bordo di barconi e pescherecci sul Mare Adriatico.
Già in prossimità della stazione di Casale Monferrato si udirono i primi saluti e ringraziamenti: "Ciao Casale", "Grazie Italia", "Viva la Libertà".
Scesi uno ad uno dal treno, con le loro borse e sacconi, raccolti a Brindisi chissà dove, i profughi furono poi aiutati dai Volontari a salire sugli autobus messi a disposizione dal Comune di Casale Monferrato.
I più provati, le donne in gravidanza, o le madri con i loro bambini ancora piccoli, vennero trasportati, a bordo delle autoambulanze, fino al centro di accoglienza installato presso la Caserma "Mazza" di Casale Monferrato.
La stessa scena si ripeté in stazione 3 ore dopo all'arrivo del secondo convoglio da Brindisi, con un altro carico di disperati.
La città di Casale Monferrato accolse con diffidenza, preoccupazione e talvolta con disappunto, la notizia dell'arrivo dei profughi albanesi, ma sarebbe errato valutare negativamente la città nel suo complesso.
Dopo l'arrivo alla Caserma "MAZZA" i profughi, molti dei quali sprovvisti di documenti ed in precarie condizione igenico-sanitarie, vennero ristorati, lavati, disinfettati e visitati dai medici e dall'USL.
Inoltre venne anche organizzata una prima distribuzione di indumenti, mentre in un locale del Comando della Caserma "MAZZA" si organizzò un Centro di Coordinamento Assistenza. Uno dei problemi maggiori che dovevano essere fronteggiati era quello della comunicazione, resa difficoltosa non solo dalla differenza linguistica ma anche culturale e religiosa.
Il principale obbiettivo fu quello di aprire con loro un dialogo tenendo conto delle diverse realtà sociali ed etniche rappresentate all'interno del centro, aiutandoli ad aprirsi a forme diverse di vita e di società, pur mantenendo una certa prudenza realistica che da sempre contraddistingue il lavoro del volontariato. Era troppo diversa la lingua, gli usi, i costumi, la religione se ce n'era una, per procedere su schemi rigidi, occorreva aprirsi ed essere flessibili nel confronto con questa massa di disperati alla ricerca di fortuna.
Dal punto di vista sanitario il problema più consistente fu determinato dalla pediculosi (pidocchi) e dalla scabbia, in aggiunta ai ricoveri resisi necessari per casi di coliche addominali. Una volta scioltesi le riserve di carattere sanitario, agli ospiti albanesi fu concessa la possibilità di uscire dal Centro di Accoglienza.
Quando i profughi decisero di girare per la città, nacquero i primi problemi, soprattutto per piccoli furti nei supermercati: cioccolata, caramelle e alimentari erano il bottino preferito, senza tralasciare il fatto che su oltre 800 persone forse solo uno aveva la patente di guida e quindi il miglior mezzo di trasporto era la bicicletta, che veniva rigorosamente "raccolta" dalle vie cittadine e utilizzata per raggiungere la caserma, ove veniva parcheggiata nuovamente a disposizione del suo legittimo proprietario, che capito il sistema veniva rigorosamente a riprendersela tutti i giorni.
All'interno del Centro di Accoglienza si creò, da subito, un clima di tensione dovuto inizialmente a rivalità storiche tra due città albanesi, che sfociavano in diverse risse e liti, prontamente sedate dalle Forze dell'Ordine.
Serpeggiò anche un generale malcontento, ognuno diffidava del compagno di camerata che vedeva l'altro sempre privilegiato, magari per semplici piccole attenzioni fatte da chicchessia.
Le autorità cercarono di rimediare alla situazione che si era venuta a creare organizzando, all'interno del Centro, due tende: nella prima venne esposta una cartina dell'Italia per far comprendere agli albanesi dove si trovavano (fu installato anche un foglio sul quale vennero esposti i nomi di tutti gli ospiti del Centro); nella seconda, che fece da "PIKE TAKIMI", cioè da punto di incontro, ogni ospite ebbe il modo di parlare solo con un Volontario e non con un militare, visti spesso, questi ultimi come un Autorità che poteva negargli il diritto alla libertà faticosamente acquisita, ma anche per fornire chiarimenti o esplicite richieste di aiuto, che poi venivano poi smistate agli organi competenti.
Altro importante servizio, che fu istituito da subito, fu il Servizio Internazionale (SHERBIM NDERKOMTAR), al quale ogni albanese poté rivolgersi per ricercare i suoi connazionali sparsi in altri campi in Italia, o per comunicare con le proprie famiglie.
Il Comando della caserma, inoltre, organizzò anche una tenda con impianti telefonici collegati via radio/telefono con altri centri d'accoglienza profughi.
Difficoltoso fu, poi, il compito di stabilire l'esatta identità, le professioni, le attitudini degli esuli e le ragioni politiche/economiche che li spinsero alla fuga verso l'Italia. Si aggiunse il problema di fornire pasti caldi graditi ai profughi, tenendo presente che nel campo erano presenti bambini di età diverse, quindi con esigenze diverse.
L'alimentazione degli ospiti fu uno dei problemi più difficili da risolvere, sia per la differenza di tradizione culinaria, sia perché molti alimenti da noi ritenuti vere leccornie a loro non erano graditi. Ciò creò anche piccole rivolte nelle lunghe file degli sfollati che si recavano in mensa, soprattutto quando alcuni cibi, come il riso o i gamberi, erano graditi agli ospiti provenienti da una determinata zona di montagna dell'Albania e non viceversa a quelli residenti sulla costa o viceversa.
Per i più piccoli i prodotti alimentari vennero forniti dalla Croce Rossa, in quanto l'esercito ebbe molte difficoltà a organizzare i pasti per i lattanti nelle diverse ore del giorno. Fu istituita una NURSERY, mentre la pulizia dei locali fu affidata agli stessi profughi, che però non si dimostrarono capaci di mantenere pulito e in ordine ciò che gli era stato affidato.
Con l'aiuto di "Specchio dei Tempi", rubrica del giornale LA STAMPA, la Croce Rossa Casalese ebbe modo di adottare un piccolo ospite albanese: TOPI SHJKRI 11 anni, con l'aria da "scugnizzo", capelli rasati a zero, con il suo italiano appena masticato, arrivò da solo dall'Albania e assieme ad un migliaio di suoi connazionali, venne spinto su un treno e scese a Casale Monferrato dove, come altri 800 ospiti, venne alla ricerca di un futuro migliore.
Inizialmente TOPI, bugiardo come la maggior parte dei bambini disadattati, dichiarò di essere a Casale con un suo zio e uno dei fratelli, ma mai realmente esistiti.
TOPI fuggì da una situazione famigliare disperata: i genitori, divorziati, l'avevano avviato alla micro-delinquenza, facendone un ottimo borseggiatore, ma vedendo partire navi dal porto di Durazzo, senza rimpianti, si imbarcò.
L'associazione, venuta a conoscenza della situazione, si mise subito a disposizione per aiutare il piccolo TOPI che venne ospitato presso una comunità di minori a Trino Vercellese, dove venne costantemente seguito ed aiutato.
Nel marasma generale, un gruppo di sobillatori creò parecchi casi difficili agli organizzatori ed in particolare i problemi nacquero in merito alla distribuzione dei pasti, momento in cui l'intera comunità albanese si trovava tutta riunita; qualcuno utilizzò copie di buoni pasto o li rubò ai propri connazionali, i quali rimasero senza pasto.
Il primo campanello di allarme, in relazione alla presenza di questo gruppo di sobillatori, venne avvertito già al momento dell'arrivo dei profughi presso la stazione di Casale Monferrato, quando furono ritrovati volantini inneggianti al ritorno alla monarchia in Albania.
Si aggiunse anche qualche problema igienico, relativo all'uso improprio delle docce, scambiate frequentemente per latrine; in più la biancheria, tutt'altro che fresca di bucato, veniva abbandonata ovunque creando grandi problemi di pulizia.
Il 18 aprile 1991 lo ricordo per alcuni momenti drammatici: un gruppo di profughi assalì e invase il magazzino vestiario allestito nel Centro di Accoglienza.
All'interno del magazzino, al momento del furto, si trovavano alcune volontarie che lavoravano per la catalogazione del materiale. In quel frangente una cinquantina di albanesi entrarono devastando il tutto e portandosi via moltissimi capi d'abbigliamento.
Il tutto finì senza feriti e solo con un po' di paura grazie all'intervento di altri volontari, delle forze dell'ordine e alla tenacia di queste volontarie, permettendo di salvare molti capi di vestiario e di fermare 16 albanesi, arrestati poi per furto dalle forze d'ordine.
Entrando nello specifico, erano presenti soggetti che continuavano a fare i loro bisogni fisiologici ovunque, sia all'interno delle tende, che nelle camerate. Inoltre tra gli oltre 800 profughi esisteva un gruppetto di "agiati", probabilmente anche delinquenti, che facevano leva su i loro compagni più sprovveduti, i quali, intimoriti dalla loro prepotenza, si lasciavano usare per coprire malefatte altrui.
Le risse e le liti all'interno della struttura erano all'ordine del giorno ed ogni futile motivo era buono per azzuffarsi.
Dopo il superamento del primo momento di emergenza, a circa due mesi dall'arrivo dei profughi alla caserma Mazza, iniziò un'altra serie di problemi, legati soprattutto all'elevato numero di profughi ospitati nel centro casalese e alla consapevolezza del loro futuro incerto. Inoltre l'inattività favoriva la crescita di tensioni e situazioni ansiogene, ciò anche dovuto alla difficoltà da parte di molti profughi di adattarsi a modi di vivere e comportamenti diversi rispetto a quelli soliti albanesi.
Venne rilevata anche la presenza di giovani, sia donne che uomini, dediti alla prostituzione; giovani tra i 16 e i 20 anni vennero adescati da una clientela "particolare", proveniente da fuori provincia. Per lungo tempo era possibile vedere numerosi giovani seduti "in attesa" di clienti sulle panchine del Lungo Po Gramsci.
Molti ragazzi e ragazze, tutti molto giovani, si presentavano spesso la mattina con evidenti tumefazioni, ma anche molto stanchi e ciò mi motivò a cercare le ragioni di tali tumidezze.
Diventai "amico" di una giovane coppia albanese, proveniente dai paesi dell'entroterra di Durazzo, Lei carina, capelli nero corvino, lisci, occhi profondi e nerissimi, una carnagione olivastra che metteva in evidenza il suo viso ovale, ove le labbra leggermente disegnate ma ben colorate con un rossetto rosso fuoco davano l'idea di un volto vissuto, benché il naso piccolo un po' all'insù alla parigina offriva la dolcezza dell'età. Lui leggermente più alto di lei, un corpo snello ma equilibrato, capello riccio, corto e castano, due orecchie leggermente a sventola su un viso ovaloide, dove due sopracciglia irsute nascondevano gli occhi castano chiari e un naso un po' aquilino, donando al giovane virgulto, grazie al colore olivastro della pelle, una fattezza molto moresca. Li credevo fratelli o amanti, invece erano due amici che insieme erano scappati dalla miseria delle campagne albanesi, lui pastore lei avviata alla sartoria.
Si erano imbarcati insieme e poi si erano dapprima perduti sul molo di Brindisi, si erano cercati tanto ma la sorte li fece ritrovare sul treno che li portava a Casale M.to. Avevano cercato ripetutamente lavoro ma senza successo. Il loro livello culturale non era molto alto, senza patente di guida e la scarsa conoscenza dell'Italiano non poteva essere loro d'aiuto.
Passavamo i pomeriggi a "chiacchierare" passeggiando all'interno della caserma, fino a strappargli le confidenze più intime di ciò che accadeva fuori e dentro la struttura di accoglienza, ed allora scoprimmo che molti profughi avevano ripreso le loro attività che svolgevano nel paese d'origine. All'interno del campo, in maniera non ufficiosa, erano nati piccoli commerci, come barbieri, parrucchiere per signora, lavandaie ecc… ma anche fuori dal perimetro il piccolo centro si era attrezzato a svolgere lavori di microcriminalità, come piccoli furtarelli o prostituzione. Mentre della prima attività non potevo aver gran conto ed era un problema prettamente della Polizia, la seconda riguardava un ambito di ricerca più vicino alla mia piccola indagine.
Mentre alcune coppie non sposate trovarono una felice unione famigliare, ricreandosi una nuova vita, benché ancora alla ricerca di un dignitoso lavoro, altri cercarono di guadagnare qualche soldo prostituendosi.
Il mercato della prostituzione albanese portò a Casale una clientela proveniente da fuori regione e la vicinanza con Pavia e Milano permise un rapido sviluppo di questo meretricio.
La prostituzione non era solo femminile ma anche maschile e temo che abbia coinvolto anche minori. I due ragazzi si confidarono con me quando un giorno vidi la ragazza abbastanza paonazza e non allegra come sempre e lui molto arrabbiato e turbato. Compresi allora che anche loro due cercavano di guadagnare qualcosa facendo questo antico mestiere ed era anche il motivo per cui la sera e il pomeriggio tardi non li trovavo mai al campo e inoltre conoscevano la cittadina meglio di me o di un casalese.
La ragazza scoppiò in lacrime e mi raccontò questa sua travagliata storia che ormai andava avanti da oltre un mese, di come era facile adescare gli italiani per un momento di sesso, di quanta clientela si era trovata grazie alla sua bellezza ed alla giovane età e non era difficile credergli, ma era incredibile pensare al numero di rapporti che la ragazza aveva ogni sera. Dovetti accompagnarla in ambulatorio, cercare un infermiera e spiegargli quale era il problema per aiutarla a curarsi dalle tumefazioni e per fare un bel ripasso (se ciò l'avesse mai fatto) di igiene ed educazione sessuale.
L'amico si sentì un po' più sollevato e cercai di comprendere da lui se c'era un giro di prostituzione organizzato oppure se era ancora, diciamo, di libero mercato. La seconda ipotesi mi parve la risposta più reale. Ma rimasi anche un po' turbato quando scoprii che anche lui era entrato nel giro della prostituzione maschile e che c'erano diversi ragazzi che frequentavano il Lungo Po per essere adescati da uomini attempati, provenienti per lo più da fuori Casale. Il mio primo pensiero fu: "oddio come lo aiuto!". Provai a parlare del problema in generale con le competenti Autorità, ma sapevano già tutto e cercavano di arginarlo come potevano, soprattutto temendo che il tutto potesse creare problemi di rivalità e lo sviluppo di una nuova criminalità organizzata.
Parlai lungamente con i ragazzi, nel mio scarso francese o cercando di farmi intendere con un italiano quasi sillabato, fino a comprendere anche quanto costava una "prestazione" e solo dopo che compresi il tariffario capii dove stava il problema e del perché ogni tanto qualche ragazza rientrava tumefatta. Praticando tariffe molto basse il mercato dell'umana sconcezza aveva richiamato più clienti, non attratti tanto da nuove figure quanto dal prezzo e ciò aveva messo il "giro" locale quasi alla fame. Di conseguenza le ritorsioni furono quelle del furto del "posto di lavoro" sul marciapiede e quindi le prostitute locali "insegnavano" alle nuove entrate albanesi il mestiere a suon di ceffoni.
La cosa drammatica era che loro erano a conoscenza di come erano fatte le banconote delle vecchie 5 mila lire, che un' Associazione (non voglio citarne il nome) elargiva ai profughi quale "aiuto" economico per le piccole spese e quindi per loro quello era il prezzo della loro prestazione.
Per fortuna una campagna di sensibilizzazione sull'igiene, sull'educazione sessuale fatta ai profughi, unita ad un adeguamento tariffario di questi ultimi e ad una bella operazione della Polizia e dei Carabinieri verso i clienti, diradò il mal costume che stava emergendo in tutta la sua drammaticità.
Un ruolo fondamentale ai fini dell'integrazione fu giocato dal punto di incontro "PIKE TAKIMI" che smistò la corrispondenza in arrivo e in partenza e organizzò attività ricreative per tenere impegnati i profughi.
Difficoltoso ma con ottimi risultati fu per me, che sono un pessimo conoscitore di sport, partecipare all'organizzazione anche di tornei di calcetto e pallavolo all'interno del Centro, tra le rappresentative degli albanesi e di alcune associazioni di volontariato, come cercare di favorire l'organizzazione di corsi di lingua italiana.
Purtroppo la situazione politica in Albania, in particolar modo a Durazzo durante le elezioni politiche di quegli anni, fece aumentare il nervosismo e la tensione all'interno del Centro d'Accoglienza. Appena giunta la notizia degli scontri armati avvenuti a Durazzo vi furono momenti di tensione anche all'interno del centro.
Consci della situazione di stallo in cui si trovavano ed esasperati dall'incertezza sul proprio futuro, i profughi domenica 5 maggio uscirono in massa dal Centro di Accoglienza ed occuparono il ponte sul fiume Po, bloccando il traffico per diverse ore.
Con il trascorrere del tempo iniziò una lenta ma regolare collocazione di profughi sul territorio della Regione e della Provincia di Alessandria che favorì l'inserimento nelle varie realtà territoriali, dimostrando come se ciò fosse accaduto fin dall'inizio, sicuramente molti problemi non si sarebbero dovuti affrontare.
Il problema fondamentale da fronteggiare fu quello dell'inserimento dei profughi nel mondo del lavoro, presupposto indispensabile per una completa integrazione nel nostro tessuto sociale, in una realtà territoriale che già manifestava diversi problemi occupazionali.
Parte della popolazione manifestava diffidenza e chiusura nei confronti del popolo albanese e tale atteggiamento derivava non solo da valutazioni oggettive dei fatti, ma anche dall'intervento dei mass media che, sempre alla ricerca di scoop, evidenziarono solo gli aspetti peggiori della presenza albanese.
Verso giugno venne ufficialmente chiusa l'emergenza albanesi al Centro di Accoglienza profughi di Casale Monferrato e fu possibile giungere, grazie all'esperienza acquisita, a valutazioni complessive sul ruolo del Volontariato.
Il Volontariato, in questo caso particolare, consolidò il proprio ruolo dimostrando le sue capacità di intervento, impiegando decine di operatori all'interno ed all'esterno del Centro di Accoglienza, con lo scopo di assistere chiunque ne avesse avuto bisogno, senza distinzioni sociali, politiche, ideologiche o religiose, affermando solamente l'importanza dei valori fondamentali dell'uomo.
L'esperienza maturò in me molte consapevolezze che mi aiutarono a crescere ed a vedere con occhio diverso e particolareggiato le varie sfaccettature dell'intervento umanitario, ma soprattutto aiutandomi a comprendere come l'integrazione sia l'unico strumento possibile per trovare la pace tra i popoli, nella consapevolezza che non si può e non si deve instillare obbligatoriamente il proprio stile di vita, ma occorre cercare l'equilibrio della coesistenza.