Blog di Dante Paolo Ferraris

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Il mio Piemonte: Ivrea

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Ivrea...Ivrea la bella
che le rosse torri specchia
sognando a la cerulea Dora
nel largo seno,
fosca intorno è l'ombra di re Arduino...

(Giosuè Carducci, Piemonte vv 21-24)

Così il poeta annuncia Ivrea, una città che oggi rivive gli antichi fasti, per tre giorni l'anno, di quella che fu l'antica Eporédia. Ma il periodo più florido della città è stato quando divenne per l'Italia e non solo, la nostra Silicon Valley. Infatti lo sviluppo socio-economico di questa città, avviene soprattutto nel secondo dopoguerra, legato in ampia misura alla crescita ed alla politica sociale del gruppo Olivetti, che aveva in Ivrea e nel Canavese importanti insediamenti industriali. Purtroppo la crisi della Olivetti, a partire dall'inizio degli anni '90, ha costretto Ivrea ad accettare una sofferta riconversione della sua struttura economica ed occupazionale, rimanendo comunque una città con aziende medio piccole ma ad elevato contenuto tecnologico.
Il lascito culturale olivettiano è presente ancora oggi e si basa sul fatto che Olivetti non perseguiva solo il profitto, ma anche il progresso sociale e culturale per i suoi dipendenti. Il comprensorio industriale disponeva di una fitta rete di ambulatori medici, asili nido, una mensa e una biblioteca; il tutto era a disposizione gratuitamente per i dipendenti e per i loro familiari.
Il Centro storico è arroccato su alcune alture dioritiche e digrada dolcemente verso l'antico ponte romano che scavalca l'impetuosa Dora. Percorro anguste vie scoscese e molte altre strade con il naso all'insù per ammirare chiese, campanili e antichi palazzi nobiliari.
Raggiungo il Castello, celebrato dal Carducci, arrancando faticosamente e dovendo farmi strada tra centinaia di persone che affollano le strade, trovando difficoltà anche ad entrare in un bar per prendere un caffè. I locali sono strapieni di persone in attesa dell'inizio dei festeggiamenti del carnevale e ai gazebo che distribuiscono il vin brulé le code sono lunghissime. Arrivo al castello delle tre torri che è un po' l'emblema della città. Il Maniero fu fatto edificare nel 1357 da Amedeo VI di Savoia; realizzato con quattro torri circolari poste a suoi vertici, era stato pensato come fortificazione difensiva interamente costruita in mattoni. Fu in seguito adibito a ricovero, fino a quando nel 1676 un fulmine fece esplodere una delle quattro torri utilizzata come deposito di munizioni: questa non venne più ricostruita. Il castello fu utilizzato anche come carcere, vicino si erge il Duomo di Santa Maria e l'episcopato. Sopra l'altura sulla quale oggi si erge il duomo, forse era già presente, fin dal I secolo a.C., un tempio romano in asse con il sottostante teatro (di cui sono ancora visibili alcune tracce). Il tempio fu poi trasformato in chiesa cristiana quando venne istituita la diocesi di Ivrea. I cospicui resti di costruzioni romane, ritrovate durante gli scavi ottocenteschi e riutilizzati per l'edificazione della nuova facciata, sono ancora oggi visibili nelle parti più antiche della chiesa. La storia della città è raccontata ampiamente dai due campanili, dalle colonne visibili nel deambulatorio dietro l'abside e dalla cripta affrescata, contenente un antico sarcofago romano che la tradizione vuole abbia poi conservato le spoglie di San Besso, copatrono di Ivrea assieme a San Savino. In seguito ad un devastante terremoto del 1117, la cattedrale fu profondamente rimaneggiata nel XII secolo e la sua facciata fu ripetutamente rifatta fino all'attuale versione neoclassica che risale al 1854. Vicino sorge il Palazzo Vescovile ed è un peccato non poter ammirare il Pomario, un affresco quattrocentesco che decora questo palazzo e che racconta la vita cortese all'interno di un castello, con il suo grande giardino.
Nella piazza del duomo troviamo la piccola chiesa di San Nicola da Tolentino, eretta nel 1605 a cura dell'omonima confraternita.
Ritorno sui miei passi scendendo lentamente verso la piazza di palazzo di città e in attesa che comincino le manifestazioni carnescialesche, sfrutto l'occasione per andare nella piazza dove sorge il Teatro Giacosa, realizzato nel 1834 e intitolato a Giuseppe Giacosa famoso drammaturgo, scrittore e librettista canavesano.
La ricerca di un posto per ristorarsi è vano, tutte le trattorie e ristoranti del centro storico sono stracolme di persone giunte per assistere al carnevale eporediese. Avrei voluto mangiare i Faseuj Grass, nonostante non sia esattamente un piatto tipico di Ivrea, ma dell'intero Canavese; in breve uno stufato di fagioli cotti con la cotenna di maiale e salamelle speziate. Mi devo accontentare di un panino e di una bibita che riesco ad acquistare ad un prezzo esoso da un venditore ambulante che ha il suo negozio viaggiante su un autocarro parcheggiato in corso Botta, proprio sotto l'antica torre di Santo Stefano, che fu il campanile dell'omonima abbazia benedettina dell'XI secolo, costruita per volere del vescovo Enrico. È tutto ciò che rimane dell'antico complesso. Mentre mangio il mio panino, guardo lo stato di avanzato degrado in cui versa il complesso La Serra; un grande edificio a forma di macchina per scrivere, che inizialmente era adibito a caratteristico albergo, dove ogni "tasto da scrivere" rappresentava una camera dell'hotel; nell'edificio sono presenti anche una sala conferenze e una piscina ma nel tempo l'albergo fu trasformato in miniappartamenti e in cinema.
Il panino certamente non mi ha sfamato e mentre vado a cercare un normalissimo bar per prendermi un caffè, iniziano a transitare i primi carri trainati dai cavalli con i tiratori già a bordo. Faccio una breve sosta per mangiarmi con gli occhi i dolci di una vetrina di una nota pasticceria. In bella vista la Polentina di Ivrea, una piccola torta che generalmente viene realizzata in monoporzione, non più grande del palmo di una mano. È di colore marroncino, ma dal cuore giallo, la sua consistenza è morbida. L'anima è fatta con farina di mais e fecola, mentre la colorazione esterna è dovuta alla sottile copertura di miele, succo d'arancia e granella. Ma non posso anche fare a meno di "mangiarmi", ahimè sempre solo con gli occhi, la torta Novecento; fu inventata alla fine dell'Ottocento da un mastro pasticcere eporediese per celebrare l'arrivo del nuovo secolo. Il dolce è composto da due strati di Pan di Spagna al cioccolato, separati da uno strato di crema al cioccolato, è molto delicata e di difficile imitazione. Fantastica la sua superficie è ricoperta da zucchero a velo che mi ricorda un prato innevato. Il carnevale di Ivrea non è uno spettacolo con molte mascherine, quelle che trovi sono quelle indossate dai bambini, ai quali sembra che sia una festa rubata, non trovi tappeti di coriandoli e di stelle filanti. Sono gli adulti, sopratutto gli adolescenti e robusti ragazzotti a vestire le giubbe delle varie compagini.
Si mescolano nel complesso svolgimento delle feste carnevalesche costumi di varie epoche che recuperano alcuni avvenimenti della storia eporediese, dalle lotte contro l'odiato feudatario (che la leggenda vuole sia stato ucciso dalla "Mugnaia", la reginetta del carnevale), all'eco delle rivolte popolari dei tuchini, sino ai simboli della rivolta giacobina (i "berretti frigi", gli "scarli" ecc.) ed alle divise dell'esercito napoleonico, ma anche agli Abbà, i giovani Priori delle Parrocchie cittadine.
Raggiungo piazza Ottinetti, dove protetto da sottili reti ammirerò lo storico carnevale con la sua celebre "battaglia delle arance". L'origine del carnevale risale al 1808, anno in cui il governo napoleonico comandò di riunificare i precedenti carnevali rionali in un'unica festa.
La grande piazza Ottinetti, luogo ove io mi soffermo a guardare la battaglia, è ricavata dagli spazi un tempo occupati dall'antico Monastero di Santa Chiara, demolita a seguito delle profonde trasformazioni urbanistiche che ebbero inizio nella prima metà dell'ottocento. In quegli anni furono anche smantellati i bastioni settecenteschi e le fortificazioni.
Tutta Ivrea è imbandierata con i colori delle compagini degli aranceri: gli Asso di picche con una divisa rossa e blu, con un Asso di picche come simbolo identificativo, insieme al foulard nero, gli aranceri della morte con i pantaloni rossi e la casacca nera con disegnato in bianco un teschio, gli Scacchi con la casacca bianca e nera a quadri, su cui si staglia una torre, simbolo del castello di Ivrea, con il foulard di color arancione. Poi ci sono i Tuchini del Borghetto con divisa color rosso e verde con foulard rosso e con lo stemma rappresentato da un corvo nero, La Pantera nera, una squadra vestita interamente di nero listata di giallo, come il foulard e una pantera ruggente come simbolo, I Diavoli, che hanno una casacca e pantaloni rossi con bande gialle come il foulard e lo stemma che ritrae un diavolo armato di forca, I mercenari, giubba color vinaccia e pantaloni gialli, due scimitarre inserite dentro una stella gialla come stemma ed infine i Credendari Aranceri, casacca gialla e blu, che come simbolo hanno voluto rappresentare il Palazzo della Credenza, sotto il quale sono poste incrociate una mazza (simbolo del Comune) e la scure d'arme (simbolo del Podestà).
Purtroppo non ho assistito alla sfilata storica, al giuramento di Fedeltà del magnifico Podestà e alla Cerimonia della Preda in Dora sul ponte vecchio, ma che per dovere di cronaca vi racconterò in seguito, in quanto studiati in anni precedenti, anche se la mia memoria non è più fulgida.
Innanzi tutto vediamo chi è la Mugnaia, già citata in precedenza, una figura che viene introdotta in pieno clima risorgimentale, nel 1858 e che è la vera protagonista del Carnevale, anzi l'eroina che ne incarna lo spirito di libertà. Infatti la leggenda narra che nel medioevo la città era dominata dal feudatario Ranieri di Biandrate che, tra altri soprusi, pretendeva di esercitare sulle spose novelle lo "jus primae noctis" ovvero lo jus maritagii, cioè il diritto del feudatario di trascorrere, in occasione del matrimonio di un proprio servo della gleba, la prima notte di nozze con la sposa.
Fu allora che Violetta, figlia di un mugnaio, nel giorno delle sue nozze con Toniotto, dovette salire al Castellazzo, dove risiedeva Ranieri, per sottostare alle voglie del tiranno. La leggenda vuole che però Violetta in un supremo impeto di ribellione, pugnala a morte il conte di Biandrate, liberando così la città dall'odiosa sudditanza.
Dal 1858 la Mugnaia è il simbolo della conquistata libertà della città e la donna che la rappresenta deve essere già sposata e può essere scelta una volta sola.
La domenica di carnevale, o domenica grassa, il Podestà (capo supremo del governo comunale) ed i credentari (membri dell'antico consiglio comunale) col il loro seguito si spostano dal Palazzo civico a piazza Castello davanti all'antica sede comunale per il "Giuramento di Fedeltà" agli statuti, ripetendo il rito del VII secolo e recitandone l‘antica formula in latino. Il Podestà era eletto annualmente e doveva essere forestiero e nel carnevale chi lo rappresenta è scelto dagli organizzatori del carnevale d'intesa con il Sindaco.
Dopo aver giurato, il Podestà con l'apposito martello preleva una pietra dalle rovine del Castellazzo pronunciando alcune frasi in spregio dei Marchesi del Monferrato, i feudatari che succedettero a Ranieri di Biandrate. Il Podestà con i credentari scende in corteo fino al Ponte Vecchio e da li, spalle al fiume, getta la pietra (la "preda") con entrambe le mani nella Dora Baltea. Questa cerimonia ha lo scopo di rinnovare la promessa fatta dalla città di non costruire mai più nulla sui ruderi del Castellazzo, simbolo della prigionia e delle sofferenze del popolo ad opera del Tiranno (Cerimonia della Preda in Dora).
Così Giuseppe Giacosa commenta in questi termini la cerimonia della Preda in Dora:
Io rammento di aver seguito, bambino, il rosseggiante corteo su per l'erta e remota viuzza che mette al Castellazzo. [...] Il corteo saliva, bandiere al vento, a suon di pifferi e di tamburi, e quelle insegne e quei suoni mi parlavano di tirannidi abbattute e di vittorie popolane. Come echeggiava piena di solenne terribilità nell'animo infantile la sentenza: In spretum Marchionis Montis Ferrati! E quanta maestà giustiziera, nella martellata sulle poche muraglie annerite dai secoli, argentate dalle lumache, irte di cardi, piene di nidi inerti sotto l'oltraggio, quasi coscienti di colpe secolari.
(Giuseppe Giacosa, Castelli Valdostani e Canavesani, ed. Roux, Frassati & C., Torino 1898)
Ma il carnevale eporediese è anche la sfilata e la versione attuale la dobbiamo all'occupazione napoleonica. Infatti la precedente tradizione dei carnevali rionali fu sostituita nel 1808 dall'unificazione delle feste dei cinque antichi carnevali rionali voluta, per motivi di ordine pubblico, dalle autorità napoleoniche che governavano la città. Risale a quella data l'istituzione della figura del "Generale", simbolo dell'autorità municipale, che veste l'uniforme dell'esercito napoleonico ed assume simbolicamente i poteri di gestione della festa, per porre fine a disordini e tensioni di cui erano causa.
Il Generale, vestito con una ricca divisa da generale napoleonico e munito di feluca piumata, sciabola, spalline e speroni dorati, è il più importante personaggio maschile del Carnevale di Ivrea, scelto ad insindacabile giudizio degli organizzatori del Carnevale in accordo con il Sindaco.
Il Generale, i suoi Aiutanti di campo, gli ufficiali dello Stato Maggiore, la vivandiera e i pifferai sono parte del corteo di carnevale, ad aprire il quale ci sono gli Alfieri che portano le bandiere storiche delle nove parrocchie di Ivrea. Sia i pifferai che gli alfieri portano il tradizionale berretto rosso frigio, icona rivoluzionaria resa famosa dalla Marianne e dai sanculotti parigini.
Il ruolo più importante del corteo è ovviamente quello della Mugnaia, accompagnata dalle damigelle, dai paggi e dalla sua scorta d'onore, ma anche dal Podestà, dal sostituto Gran Cancelliere e dagli Abbà. Ad accompagnare il corteo c'è la banda dei pifferai e dei tamburini che suonano le pifferate, il cui repertorio si rifà alle tradizioni musicali militari piemontesi e francesi dei secoli XVII-XVIII.
Il cuore del carnevale è la battaglia delle arance che rappresenta il momento più spettacolare dei festeggiamenti, motivo di richiamo turistico annuale per migliaia di visitatori.
Le origini della battaglia sono incerte, come incerto è il numero delle tumefazioni che aranceri e sprovveduti turisti contano alla fine della battaglia, ma pare che sia di origine medioevale, come dicono i più ben informati. La leggenda vuole che il feudatario donasse due pentole di fagioli alle famiglie più povere che per disprezzo lanciavano i fagioli per strada. I fagioli erano anche lanciati dalle fanciulle affacciate ai balconi verso i carri di carnevale insieme ai coriandoli, lupini e fiori. Il lancio delle arance pare sia stato inizialmente riservato alle fanciulle che le tiravano verso i ragazzi a bordo dei carri per attirare la loro attenzione. I ragazzi iniziarono a rispondere a tono, passando poi a quello che è oggi la battaglia delle arance. La battaglia condotta con le modalità attuali nacque nel XX secolo, nell'immediato dopoguerra, quando si formarono le prime squadre a piedi di aranceri e si allestirono i primi carri da getto. Da iniziativa sorta anarchicamente fuori dal contesto del carnevale tradizionale ne entrò presto nell'ambito storico-leggendario, ove i carri dovevano rappresentare gli armati manipoli di soldataglia agli ordini del tiranno e le squadre a piedi dovevano essere intese come i popolani in rivolta; diventò così anch'essa simbolo delle lotte del popolo contro la nobiltà.
È sicuramente il momento più spettacolare del carnevale che non solo raccoglie e rappresenta la voglia del popolo eporediese di conquistare la libertà, ma anche lo spirito di goliardia, rendendo il carnevale di Ivrea unico nel panorama nazionale e sicuramente uno tra i più seguiti e partecipati.
La partecipazione è collettiva, basta iscriversi in una delle 9 squadre di aranceri a piedi o diventando membro dell'equipaggio dei carri da getto.
La battaglia ha per scenario le principali piazze della città, dove ad attendere il corteo dei carri da getto vi sono le squadre appiedate che presidiano le piazze.
I carri sono pittorescamente bardati e trainati da pariglie o quadriglie di cavalli; su ogni carro vi sono una decina di "aranceri", protetti da maschere di cuoio con grate di ferro per riparare il viso dal continuo tiro di arance a cui sono sottoposti, ma anche da pesanti imbottiture celate sotto i costumi. Gli aranceri sui carri lanciano con entrambe le braccia in modo da aumentare la "potenza di fuoco". Gli aranceri sono centinaia per squadra, uomini e donne, e assaltano il carro appena entra in piazza. Non hanno nessuna protezione ma solo i costumi colorati con ampie borse per contenervi le arance.
La battaglia delle arance ha sempre dato luogo a polemiche per i supposti sprechi ma in realtà le arance utilizzate sono quasi prive di valore commerciale. Al termine di ogni battaglia il selciato di strade e piazze della città è interamente ricoperto di polpa e buccia di arancia.
Io ho messo nel conto della giornata di essere comunque colpito da qualche arancia vagante, anche se non oggetto di tiro diretto, in quanto munito di capello frigio, vale a dire l'obbligo per tutti i partecipanti - pena il rischio di diventare bersaglio di "grazioso getto delle arance" - di indossare il rosso berretto frigio.
La gente si accalca intorno alla piazza ad ammirare questo corteo di carri da getto e i colorati aranceri che con furia si lanciano le arance; gli spettatori si proteggono come possono, cercando sopratutto di coprirsi il volto, ma le arance, nella mischia di una battaglia con il lancio di migliaia di agrumi, non può non colpire chiunque si trovi inavvertitamente sulla sua traiettoria, così anche io mi prendo la mia brava dose di arance addosso rimanendo sbigottito nel vedere persone anziane che con disinvoltura partecipano, come spettatori, alquanto divertiti alla battaglia. La pavimentazione della strada e della piazza diventa velocemente scivolosa e non è possibile non calcolare una caduta in quello che non è altro che una "puciaca" melmosa di arance, alta anche alcuni centimetri. Nonostante lungo la via Arduino e Palestro sia vietato, durante i periodo di svolgimento della battaglia, portare bambini in carrozzella, qualche mamma sprovveduta c'è sempre.
Dopo due ore di urla, lanci, visi tumefatti degli aranceri, casacche adorne di medaglie lasciate dai colori dei frutti, con precauzione e a piccoli passi per non scivolare lungo il fiume di succo d'arancia che corre sulla strada, lentamente torno verso l'auto, non prima di passare sul ponte vecchio e al rione Borghetto.
Qui il carnevale ha caratteristiche diverse e una storia particolare. Al Borghetto un'autorevole personalità del rione, viene promossa a capopopolo e assume il nome di Bano, in ricordo della piccola comunità croata, fondata dai cavalieri balcanici che si stabilirono nel rione al ritorno da una crociata. Il Bano è anche il Presidente del Comitato croato della polenta e merluzzo, nata per sostenere la Riappacificazione tra gli abitanti del rione Borghetto, quelli della parrocchia di San Grato e quelli della parrocchia di San Maurizio. La Riappacificazione avvenne grazie alle donne dei rioni, che per l'occasione confezionarono una bandiera tricolore con lo stemma sabaudo con un corvo che nel becco trattiene un ramoscello d'ulivo.
La storia tramandata vuole che ci fu un tempo in cui odi e rancori divisero i cittadini delle due sponde della Dora, schierati gli uni contro gli altri. C'erano continui episodi di intolleranza e rivalità, ma anche violenze con scorrimento di sangue fraterno tra i due schieramenti opposti. Il Carnevale era un'occasione di scontro maggiore, allorquando i cortei dei rispettivi rioni si incontravano sul Ponte.
Le baruffe andarono avanti per molti anni, fintanto che un giorno fu suggellata la pace, proprio grazie alla capacità persuasiva delle donne. La domenica mattina si rinnova l'antico patto di riconciliazione. In mezzo al Ponte Vecchio infatti si incontrano nel rituale abbraccio di pace il dignitario rappresentante il Console Maggiore di San Maurizio, e il Bano della Croazia, per gli abitanti del Borghetto.
Il ponte vecchio è anch'esso sdrucciolevole ed è difficile camminarci, nonostante io sia munito di un paio di scarponi con una suola ben armata. Vorrei affacciarmi dal ponte a guardare lo scorrere delle acque tumultuose della Dora, ma la calca di persone è talmente tanta che è impossibile fermarsi.
Le piene della Dora, hanno segnato da sempre la città, lasciando spesso segni devastanti non solo sul territorio urbano, ma anche segnando spesso il morale della popolazione. Fin dai tempi medioevali, da quando almeno ho reperito la mia documentazione, Ivrea è sempre stata una città operosa, ricca di traffici commerciali e quindi ricca di mercati e fiere, interrotte solo dalle manifestazioni religiose e dalle piene del fiume. Le inondazioni causate dalla Dora maggiormente documentate sono quella del 1605, quando le acque travolsero e distrussero il ponte di Donnaz, trasportando fino a Ivrea le grossi travi, lunghe anche 40 piedi (circa 20 metri), recuperate dagli abitanti di Ivrea e riutilizzate per la copertura della chiesa di San Nicola, ma anche quella del 1620, dove proprio a ridosso del ponte vecchio, si raccolsero centinaia carri di legname e fasciume provenienti dai boschi della valle d'Aosta. Non posso non ricordare, purtroppo per mia deformazione professionale, l'inondazione del 1755 che provocò la morte di tre mugnai impegnati al lavoro nei loro mulini galleggianti sulla Dora, ma anche quelle del 1977, del 1993 e del 2000.
Cercando di attraversare le strette strade del Borghetto, continuo a camminare a fatica in mezzo a ciò che rimane delle arance, dopo il loro utilizzo nella battaglia. Anche le cassette di legno, impilate a grandi altezze lungo la strada di percorso dei carri e che servono da rifornimento agli aranceri appiedati, sembrano piccole muraglie.
Prima di varcare l'uscita, trovo un piccolo gruppo di aranceri adombrati, un po' tumefatti in volto e con residui di arance in testa che sembrano colate di spremute. Stanno commentando la loro battaglia e si preparano a quella di domani. Indossano la casacca dei tuchini del Borghetto.
Anche sui tuchini del Borghetto c'è una antica storia, mi fanno ritornare alla mente, le estenuanti lotte del XIV secolo quando i Savoia, dopo essersi contrapposti al marchese del Monferrato e agli Acaia, dovettero affrontare la grande sommossa popolare del "tuchinaggio" che insanguinò per lungo tempo le terre del canavese. La rivolta ebbe conclusione proprio ad Ivrea, nel 1391, con un accordo o convenzione voluta dal Conte Rosso (AmedeoVII).
Le cause dell'insurrezione iniziata nel 1386 sono di tipo sociale ed economico: il Canavese da anni era travolto da continue guerre tra i feudatari locali e i nemici di confine e si era economicamente impoverito, conseguentemente il popolo ne subiva sempre più le ripercussioni e lo sfruttamento da parte dei piccoli e grandi feudatari che amministravano il territorio con poca giustizia ed equità. La rivolta ha inizio con le violenze nell'alto Canavese dove vengono saccheggiati e distrutti diversi castelli tra cui quello di Brosso. I tuchini trovano subito l'appoggio del Marchese del Monferrato, ma dopo un lungo periodo di scontri, buona parte dei rivoltosi preferisce sottomettersi direttamente ai Savoia, piuttosto che continuare a dipendere dai vassalli locali. Altri preferiscono continuare a combattere, fintanto che nel dicembre del 1390 le truppe sabaude riescono a conquistare i principali centri dei rivoltosi, i cui capi vengono sommariamente processati e condannati a morte. I tuchini, ormai ridotti a gruppuscoli senza appoggi validi, sono costretti alla resa. L'accordo, firmato nella casa degli Stria, nobile famiglia di Ivrea, è molto importante perché Amedeo VII viene infatti riconosciuto come unico Signore del Canavese, i nobili perdono gran parte della loro indipendenza e il popolo può rivendicare i suoi diritti e non essere sottoposto più alle angherie dei Signorotti locali. Il nome Tuchini e tuchinaggio è stato interpretato dagli storici in diversi modi. Alcuni affermano che potrebbe derivare dal francese "tous chiens", tutti cani o da "tue chiens", ammazzacani, altri ritengono invece che la parola derivi da "tuc' un", tutti per uno ed è quella più accreditata esprimendo il concetto di unione che sta appunto alla base della rivolta che il nome rappresenta.
Prendo la mia auto e mi dirigo verso il casello autostradale rimpiangendo di non poter assistere all'abbruciamento dello scarlo che avverrà il martedì grasso. Lo scarlo è un palo rivestito di erica e ginepro che viene bruciato in ogni quartiere, simbolo di vitalità e di buon augurio, concludendo così il carnevale. Quanto più velocemente le fiamme risalgono il palo, tanto più è segno augurante di prosperità per l'anno da poco iniziato. Il compito di appiccare il fuoco allo scarlo è riservato agli Abbà ed a rappresentare gli antichi priori delle 5 parrocchie di Ivrea sono dieci bambini vestiti con abiti rinascimentali. Nel ‘700 gli Abbà erano dei giovani che organizzavano le feste rionali e portavano come simbolo una pagnotta conficcata su uno spadino mentre oggi il pane è sostituito da un'arancia che rappresenta la testa mozzata del tiranno.
Ormai si fa scuro e finisce così la mia giornata, un po' ammaccato ed intirizzito dal freddo ma soddisfatto, quantunque mi sarebbe piaciuto assistere anche ad altre manifestazioni legate al carnevale che non ho raccontato ma che, se ne avrò la possibilità negli anni venturi, sicuramente potranno essere oggetto di una mia partecipazione.