Blog di Dante Paolo Ferraris

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Luci ed ombre a Torino (XI parte)

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Fenrir GreybackLa mia passeggiata continua ritornando sui i miei passi e dopo pochi minuti mi ritrovo in via Roma che come il nome rivela è la principale arteria della moderna Torino post unitaria.
Il primo tratto fu aperto su progetto del Vittozzi fra il 1615 ed il 1619, realizzata per volontà del duca Carlo Emanuele I di Savoia e prese la denominazione di Via Nuova o Contrada Nuova. La via divenne ben presto uno dei principali assi della città; la strada terminava in un'ampia spianata attraverso una la breccia praticata nelle antiche mura romane.
La via venne dedicata a Roma il 29 marzo 1871 e agli inizi del novecento manteneva ancora le sue caratteristiche forme barocche. Tuttavia si presentava molto caotica, trafficata e sporca, animata da numerose bancarelle, antesignane degli attuali negozi di lusso. Si andava creando quindi la necessità di rendere la via più ordinata, fruibile ai viaggiatori sopratutto come via di accesso al centro cittadino per chi scendeva alla stazione ferroviaria di Porta Nuova. Nel 1931 il Comune decise di rinnovare radicalmente la via in tutta la sua lunghezza in base ad un progetto, realizzato da un gruppo d'ingegneri con la consulenza tecnica ed artistica dell'Arch. Marcello Piacentini, che vide il suo completamento nel 1937. L'ingente cumulo di macerie formatosi dalla demolizione a suon di picconate dei vecchi stabili servì a colmare il canale Michelotti, ampliando così l'area del parco cittadino. Il primo tratto a venir modificato fu quello che collega Piazza San Carlo a Piazza Castello, ed è quello in cui ora mi trovo. La strada venne migliorata dotandola di edifici in stile eclettico con portici caratterizzati da serliane (elemento architettonico composto da un arco a tutto sesto affiancato simmetricamente da due aperture sormontate da un architrave; fra l'arco e le due aperture sono collocate due colonne) e portici pavimentati con marmi policromi di esclusiva provenienza italiana visto il periodo di autarchia. Il primo tratto venne riconsegnato ai torinesi il 28 ottobre del 1933. Caratteristica di grande effetto scenico fu l'idea di pavimentare il fondo stradale con una sorta di pavé in cubetti in legno, conferendo una particolarità di pregio e di unicità alla via. Nel dopoguerra, a seguito dei danni causati dai bombardamenti del 1944, la pavimentazione in legno fu rimossa e sostituita da un'uniforme lastricatura in pietra.
Lungo via Roma si trova la Galleria San Federico, un edificio commerciale del centro storico realizzato negli anni Trenta, un tipico esempio di edificio "cielo-terra" in stile eclettico con planimetria a "T", che consente tre vie d'accesso dalle circostanti via Bertola, via Roma e via Santa Teresa per gli acquirenti dei negozi di lusso presenti. Infatti ospita al suo interno numerosi locali commerciali, uffici e lo storico cinema Lux. Quest'ultimo, inaugurato il 31 marzo 1934 con il nome Cinema Rex, con i suoi 1.573 posti fu la più grande e moderna sala cinematografica di Torino. Rinominato Dux nel 1942 assunse l'attuale nome Lux nel 1945. Ad occupare i primi uffici della Galleria San Federico fu il quotidiano La Stampa che insediò qui la sua nuova sede. Da allora la Galleria San Federico è una prestigiosa galleria, sede di negozi d'antiquariato, di gioiellerie, di abbigliamento e pelletterie di famose marche, nonché di studi professionali e, fino agli anni duemila, ospitando anche la sede della Juventus F.C.
Mi attardo pensando sotto i portici di via Roma, piazza San Carlo e via Santa Teresa e mi torna alla mente un fatto letto su un libro di storia torinese dal titolo "L'Affare Cornavin". Fu un intrigo amoroso con sequestro di persona, un delitto, svoltosi tutto all'ombra della corona proprio nello scenario di piazza San Carlo.
Il palazzo del marchese di Fleury era affacciato su questa piazza, attiguo alla residenza di una avvenente nobildonna, tanto da essere amata intensamente dal duca Carlo Emanuele, dalla quale ebbe (pare) tre figli. Della stessa donna si invaghì anche il marchese Fleury, divenendo contendente del duca. La tresca segreta con il duca, sposato, durava da molto tempo, cioè da quando Jeanne-Marie de Trécesson era divenuta dama d'onore della duchessa Cristina. Per nascondere la tresca il duca fece sposare la bella nobildonna al marchese Pompilio Benso di Cavour ma ciò non volle dire interrompere comunque le appassionanti frequentazioni.
La marchesa acconsentì anche alle "avance" del marchese Francesco Giuseppe Wilcardel de Fleury e una porta comunicante tra gli alloggi dei due venne presto aperta, celata da un armadio e da una spessa tenda. Lo staffiere, Francesco Cornavin, si accorse di questo passaggio comunicante e pensò di renderne edotto il duca ma in assenza di questi fece la confidenza al suo primo paggio, il conte di Caresana.
Il cortigiano ben si guardò dal riferire il tutto al duca, per non creare dispiacere, ma riportò il tutto alla bella marchesa che informò il Fleury.
Qualche giorno dopo il 6 luglio 1666, il corpo dello staffiere fu ritrovato in riva allo Stura ucciso con una rivoltellata e con diversi colpi inferti da un arma da taglio.
Il Duca volle indagare con maggiore attenzione, sull'omicidio dello staffiere della sua amante; scopri prestò che il Cornavin fu sequestrato in piazza reale (ora piazza San Carlo) da arcieri del marchese Fleury, da li trascinato appena fuori Torino e ucciso in un tentativo di fuga.
Il Senato condannò a morte gli uccisori del Cornavin e al carcere a vita il marchese Fleury.
Il marchese scrisse al duca, implorando misericordia e la grazia, offrendo anche centomila scudi. Il duca ricusò il denaro offerto, ma volle scarcerare il Fleury, bandendolo però dagli stati sabaudi. Il Fleury divenne così un bandito di strada e poté tornare a Torino solo anni dopo, perdonato dalla seconda Madama Reale, Maria Giovanna Battista di Nemour, sulla quale fase finale della storia si fantasticò molto.
Indignato per il fattaccio e per il tradimento della sua favorita, ma anche per lo scandalo che scoppiò a corte, il duca nel 1668 fece esiliare l'ex amante in Francia, lasciando così spazio alla nuova relazione con Gabrelle de Mesmes de Marolles, dalla quale lo stesso anno ebbe un figlio.
Una piazza che di amori e pazzie può raccontarne molte, come i vari amori di Vittorio Alfieri che come abbiamo già visto alloggiava in piazza San Carlo. Questi tentò anche il suicidio per l'amore impossibile con Cristina, la moglie del barone Imhof, che tuttavia non fu l'unica passione proibita dell'Alfieri che si consumò nei palazzi che si affacciano a questa piazza. Perse la testa anche per Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti e per Luisa Stolberg d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuard.
Esattamente all'angolo dove mi trovo ebbe luogo nel 1925 uno dei fattacci di cronaca nera più conosciuti di tutta Torino, una storia di fantasmi. Qui vi sorgeva, prima che venisse rifatta via Roma, l'albergo Gran Cairo, in cui venne fatta a pezzi la "Bela Rinin", la vittima protagonista di uno dei più seguiti processi da parte del pubblico torinese e non solo, rasentando la morbosità, quasi fosse un grande spettacolo. Oggi qui vi è uno dei più importanti negozi di moda, quello di Hermes, oggetto di frequentazione di Draco Malfoy all'epoca in cui ero a capo della Hogwarts torinese.
Fu un netturbino ad avere il primo contatto paranormale con la defunta, in via Saluzzo angolo via Berthollet, lontano dal luogo ove fu consumato il delitto.
Irinao Eriberta Barbero, conosciuta come la "bela Rinin", ventisette anni, di mestiere ratavolòira cioè pipistrello e sinonimo di prostituta, fu uccisa e fatta a pezzi. I suoi brandelli furono sparsi per tutta Torino e i giornali dell'epoca scrissero con dovizia di particolari i vari ritrovamenti, fino a quello del pacco che conteneva la testa con gli occhi della donna ancora spalancati per il terrore. Del truculento assassinio si impossessarono i cantastorie:
"Senza gambe la bela Rinin!
Il mistero intanto resta...
or si chiedono a Torino:
verrà fuori anche la testa?"

Il netturbino, riferendo del suo incontro con il fantasma, aveva persino descritto accuratamente il cappellino di feltro scuro portato dalla donna. Costui non aveva mai dato alcun segno di squilibrio in passato e aveva raccontato il surreale episodio ad un giornale locale. Altre persone asserirono di aver visto il fantasma della "Bela Rinin", creando per lungo tempo sconcerto tra la popolazione della placida Torino. L'assassino, Francesco Cattaneo, disoccupato, era il marito della Barbero, ma faceva anche il gargagnan (protettore) della stessa. Aveva ucciso la moglie e fatto a pezzi il suo corpo con l'aiuto dell'amico Ludovico Bertino; il processo si svolse nel febbraio del 1927 e il Cattaneo fu condannato a 30 anni e il Bertino se la cavò con cinque.
Sempre in quest'angolo tra via Santa Teresa e via Roma una piccola lapide ricorda Libero Tubino, uno studente diciottenne torinese che mori il 23 settembre 1943 come partigiano sulle colline di Gassino (TO) colpito dai nazi-fascisti. Pochi giorni prima, proprio l'8 settembre aveva ideato un programma politico, denominato "Universalista" che aveva per obiettivo creare un associazione fra studenti e forze giovanile per contribuire alla nascita di un Italia repubblicana, inserita in una federazione europea. Il programma così recitava "Il mondo è stanco delle guerre, il mondo vuole la pace, troppo è il dolore che ci circonda. La rivoluzione che noi abbiamo iniziato deve porsi delle precise mete da conseguire; dobbiamo creare una Repubblica italiana che farà il punto per il quale arriveremo ad una confederazione Europea, possibilmente mondiale. Compagni di tutto il mondo, uomini e donne di tutti i Paesi, di tutte le razze, abolite i confini! Posate le armi, tornate alle vostre case! La pace non può, non deve essere fuori di voi. Creature dei cinque continenti unitevi! L'esperienza di 3000 anni ci insegna che i vinti e vincitori sono schiavi del dolore e della misera. A che pro la guerra?" Il messaggio idealista di questo giovane torinese, carico di speranze e di buoni auspici fu raccolto idealmente da milioni di persone e un primo e faticoso passo venne successivamente raggiunto con la reazioni dell'O.N.U., ma molto resta ancora da fare per costruire un mondo migliore. Una lapide ricorda Tubino Libero all'angolo della via dove sorgeva la casa natale che fu successivamente demolita nel 1931/32.
Mi avvio verso piazza Carlina percorrendo la contrada di San Filippo, ora Maria Vittoria, e da lontano scorgo la sagoma di Fenrir Greyback; il cielo della via fino a qualche tempo fa era colorato dal bell'effetto di bandiere che garrivano al vento, tese tra le due ali della via. Erano le copie perfette dei vessilli reggimentali; occorre sapere, per sola curiosità, che ogni reggimento all'epoca di Carlo Emanuele III di Savoia detto il Laborioso e soprannominato dai piemontesi Carlin (Torino, 27 aprile 1701 – Torino, 20 febbraio 1773), re di Sardegna, duca di Savoia, marchese di Monferrato, marchese di Saluzzo, principe di Piemonte e conte d'Aosta, della Moriana e di Nizza, usava avere una propria bandiera reggimentale, in quanto non esisteva ancora la bandiera nazionale. Infatti l'origine delle bandiere nazionali è legata alla Rivoluzione francese, quando la bandiera era spesso lo stemma (le "armi") della casata regnante, realizzata in forma di bandiera ("bandiera d'armi") e non veniva sentita dalla popolazione come la propria "bandiera d'identità nazionale". Spesso i disegni di questi vessilli erano complessi e ricercati. Quando durante la Rivoluzione francese fu issato il primo tricolore, una novità assoluta che identificava un popolo e una patria, altre nazioni imitarono l'iniziativa. In Piemonte ogni reggimento di fanteria aveva in dotazione bandiere quadrate e intensamente colorate affinché durante la battaglia fossero ben visibili, consentendo di capire le posizioni dei reggimenti.
Il primo tronco della via nel secolo scorso(1800) si chiamava appunto contrada di San Filippo, perché fiancheggiava il sagrato della omonima chiesa; il secondo, da piazza Carlina a via Plana,era denominata contrada del Soccorso, dalla presenza, a fianco della chiesa di Santa Pelagia. Quello che caratterizza da sempre via Maria Vittoria sono le numerose botteghe di oggetti d'arte antiquariato. Ed è proprio tra una di queste botteghe e il sagrato della chiesa di San Filippo Neri che, incontro sul marciapiede opposto, Fenrir Greyback, un lupo mannaro, che pur essendo un mangiamorte, non è segnato dal marchio nero. Mi fa il suo grande sorriso ipocrita, mettendo in evidenza i suoi denti gialli. La sua carnagione è scura, il viso allungato con una fronte corrugata e due sopracciglia ampie e quasi disegnate da quanto sono curate. Privo totalmente di capelli (i capelli non so se li abbia mai avuti), sono evidenti le sue due grandi orecchie e il grosso naso e lungo naso. Gli occhi scavati mettono in evidenza due occhi scuri e gli zigomi sporgenti.
Presenta larghe spalle e grande petto prominente su un fisico che appare tozzo benché sia abbastanza alto, il tutto retto da gambe non proporzionate. Un fisico che apparentemente regge poco per l'età e ha perso consistenza, cadendo su se stesso, anche se vuol apparire " palestrato". Ha una voce leggermente impastata come se avesse sempre qualcosa in bocca quando parla o più semplicemente una voce leggermente "nasale". Il suo saluto è quasi un atto dovuto, non potendomi evitare nella stretta via, non si ferma e prosegue il suo cammino.
La chiesa di San Filippo Neri, dove ho incontrato Fenrir Greyback, sorge all'incrocio di via Maria Vittoria, con via Accademia delle Scienze e dista pochi passi dal Collegio dei Nobili; Era il 17 settembre 1675 quando Madama Reale (Maria Giovanna Battista) posava la prima pietra per l'edificazione della chiesa, rispettando le volontà del marito, Carlo Emanuele II. È l'edificio di culto più grande di Torino, progettato originariamente dall'architetto Antonio Bettino e portato a termine da Filippo Juvarra che la dotò di una navata lunga ben 70 metri. Il tempio sorge su una cripta cimiteriale, risalente al Seicento dove riposano tutt'ora alcuni cittadini illustri dell'epoca, tra i quali Anna Vittoria di Savoia Soisson, duchessa di Sassonia, i resti del beato Sebastiano Valfrè e alcuni caduti dell'assedio francese del 1706. La tradizione popolare vuole che questi ultimi si aggirino ancora come fantasmi e anime in pena. L'adiacente piccolo oratorio è del 1723, su disegni attribuibili allo stesso Filippo Juvarra; sulla facciata dell'oratorio, è tuttora visibile una palla di cannone conficcata nella parete di destra a circa 10m di altezza, risalente al bombardamento di ritorsione subito il 26 maggio 1799 a opera della guarnigione francese, asserragliatasi nella Cittadella. Nella chiesa di San Filippo Neri è ambientata la vicenda principale del romanzo A che punto è la notte di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, da cui è stata tratta l'omonima miniserie televisiva con Marcello Mastroianni e diretta da Nanni Loy.
Il beato Sebastiano Valfrè, sepolto sotto il terzo altare della navata di destra, ha lasciato molti documenti storici di quel maggio 1706 in cui Torino fu assediata dagli spagnoli, alleati con i francesi del re Sole. Grazie ad uno dei cronisti più importanti dell'assedio che fu don Francesco Antonio Tarizzo da Favria Canavese, autore del "Ragguaglio Istorico", conosciamo cosa accadeva all'imbrunire nella vicina piazza San Carlo, quando i militari del Reggimento delle Guardie di S.A.R., «prostrati avanti ad un piccolo Altare, che avevano innalzato ad onore di Maria Vergine, la salutavano ad alta voce col canto delle Litanie, o colla recitazione del Rosario». Ed era in questa Torino stretta d'assedio che padre Sebastiano Valfrè dispensava soccorso fisico e spirituale nonostante i suoi settantasette anni.
Molti militari pernottavano sotto i portici di piazza San Carlo ed il sovraffollamento era tale che alcuni di essi dovevano dormire sui carri scoperti della sussistenza. Su questi carri salivano anche leggiadre signorine dai facili costumi e una testimonianza del tempo di un'umile creada (cameriera), Maria Francesca Ferrera, così descrive l'attività notturna di Padre Sebastiano: «il servo di Dio portato dal zelo di quelle anime, e per togliere l'offesa del Signore usciva di notte tempo e circa la mezzanotte, andava girando attorno quei portici, visitando quei Carri, ed ove trovava, che gli potesse esser pericolo dell'offesa del Signore, dava avvisi salutari a quelli soldati per distoglierli dal male...».
Ma di colpi di cannone, presenti nelle mura cittadine ne troviamo anche nella poco lontana piazza San Carlo, dove un occhio attento può scorgerne una sulla facciata di palazzo Solarolo di Borgo oltre ad altre due palle di cannone murate nel fronte est della piazza presso via Giolitti.
In via Maria Vittoria furono girate anche alcune scene di film importanti come "La seconda volta" del 1995 di Mimmo Calopresti, con interprete e produttore Nanni Moretti, che racconta la storia di un dirigente FIAT che anni dopo essere stato colpito alle gambe da un commando terrorista incontra casualmente la donna che lo aveva ferito.
Vicino alla chiesa monumentale San Filippo si allineano edifici storici in cui aleggiano ancora altri racconti di fantasmi. Non sono superstizioso ma credo che l'apparizione di Fenrir in questo luogo non sia casuale. Nella vecchia via San Filippo, al numero 19 molti vogliono ancora trovare il fantasma di don Gnavi, il prete che venne ucciso e fatto a pezzi il 19 febbraio 1918. I testimoni dell'epoca, come il corniciaio che aveva il suo laboratorio su quella strada, videro uscire il fantasma del prete dal portone, un anno dopo il suo assassinio. Pare che il fantasma circoli ancora libero per Torino e che entra ed esca dal civico 19.
Siamo alla fine del mese di febbraio del 1918, quando in via San Filippo 19 si presenta alla contessa Elisabetta Bianchi Bestini d'Espina l'Ing Domenico Anselmi, intenzionato ad affittare un alloggio per conto del colonnello Mario Filipponi, che a breve si sarebbe trasferito da Genova a Torino.
La proprietaria non ebbe certo problemi nel consegnare all'uomo le chiavi dell'appartamento di un nuovo inquilino che sarebbe certamente stato una persona integerrima considerato la sua carriera militare.
L'ingegner Anselmi nei giorni seguenti andò ripetutamente nell'alloggio, col pretesto di preparare l'arrivo del colonnello.
L'Anselmi salì in casa anche con un prete. L'andirivieni dei giorni precedenti e anche la comparsa del prete incuriosirono la portinaia, Giuseppina Oria Bric, ma la cosa più strana stava nel fatto che dopo aver visto tornare la seconda volta il sacerdote nell'alloggio, non lo aveva più visto uscire.
Parlò della questione con la contessa padrona di casa. Questa acconsentì a verificare questo strano movimento e accompagnata dalla portinaia si recò nell'alloggio con il pretesto di eseguire alcuni controlli in attesa del futuro inquilino.
Entrate nell'alloggio con l'Anselmi non trovarono nulla di anomalo se non un tappeto imbrattato da una larga macchia di color rosso scuro posto nella vasca da bagno. L'Anselmi affermò che si era sporcato di vino, per colpa di una bottiglia che si era rotta... Ma subito dopo l'uomo si dileguò gettandosi a capofitto giù dalle scale, facendo perdere le proprie tracce.
Domenico Anselmi infatti non era un vero ingegnere, anche il nome era falso, e ovviamente nessun colonnello avrebbe mai traslocato da Genova.
Qualche giorno dopo dalle acque del Po venne ripescata una gamba umana e le due donne spaventate si rivolsero alla Polizia che perquisì l'alloggio. Dalla abitazione saltarono fuori una tonaca e alcuni oggetti personali di Don Guglielmo Gnavi.
Il sacerdote era arrivato con la madre da Caluso, dove abitava, e l'aveva lasciata a Porta Susa spiegandole che sarebbe tornato nel giro di poche ore. E invece la madre aveva dovuto denunciarne la scomparsa.
Tra gli oggetti di Don Gnavi spuntò fuori un taccuino nel quale c'era annotato un debito di un certo Pietro Balocco. Le indagini si indirizzarono verso l'abitazione del Balocco, in via Donizetti. Nel corso della perquisizione furono rinvenuti alcuni oggetti del sacerdote e una grossa valigia dentro la quale vi era il torace di Don Gnavi, il resto del corpo fu restituito dal Po qualche giorno dopo.
Il Balocco fu arrestato e dichiarò che don Gnavi era un prete affezionato più alla mamma che a Dio e che era uno strozzino che commerciava in qualunque cosa e prestava denaro. Il Balocco accusò un certo Pizzetti di aver ucciso il prete dopo averlo rapinato. L'assassino si sarebbe poi suicidato ma i giudici non gli credettero e finì all'ergastolo.
Ricordo che Dario Argento situa proprio in via Maria Teresa, l'abitazione del protagonista del film "Il gatto a Nove Code" del 1971.
Ripenso al lupo mannaro, Fenrir Greyback, e alla fatica che feci per portarlo a lavorare nella Hogwarts torinese. Fu un altro Mangiamorte tra i più pericolosi a suggerirmelo ed io, stolto come ero non conoscendo i soggetti, mi diedi molto da fare per farlo venire a lavorare con me.
Credo che Fenrir Greyback si senta molto solo, rigettato dalla società per via della sua condizione di lupo mannaro, ed è per questo che vuole infettare più persone possibile affinché gli altri diventino come lui, rabbioso con il mondo. Il suo nome e il suo comportamento ricordano il Fenrir, noto anche come Fenrisúlfr (in norreno ), un gigantesco lupo della mitologia norrena, nato dall'unione tra il dio Loki (dio della grande astuzia e del caos, ingegnoso inventore di tecniche e diabolico ingannatore) e la gigantessa Angrboða (il suo nome significa "presagio di male"). I fratelli di Fenrir sono la regina dei morti Hel e al Miðgarðsormr (enorme e mostruoso serpente, altresì chiamato Jörmungandr ['jœrmuŋgandr] "demone cosmicamente potente") e ciò giustifica la sua vicinanza ai Serpeverde. Fenrir viene generato nella Járnviðr ("foresta di ferro"), luogo da cui provengono anche i due lupi Sköll e Hati.
Il nome di Fenrir forse significa "Lupo della brughiera", o "Lupo della palude". Altri suoi appellativi sono "Vánargandr", "demone del Ván", il fiume che si crea dalla sua saliva, e "Þjóðvitnir", "lupo nemico del popolo".
La mitologia norrena ci racconta che quando gli Dei seppero che Fenrir veniva allevato assieme a Hel e il Miðgarðsormr nella terra dei giganti (Jötunheimr), decisero di farli portare al loro cospetto perché Odino decidesse della loro sorte: le profezie dicevano che da simili creature non sarebbero venute che disgrazie. Hel fu inviata a regnare negli inferi sui morti; il Miðgarðsormr fu inabissato sul fondo dell'oceano. Fenrir, invece, lo tennero presso di loro non sapendo cosa farne.
Fenrir cresceva sempre di più, sia in ferocia che dimensioni, tanto che solo il dio Týr ( dio della guerra, noto per il suo coraggio) osava portargli da mangiare. Gli Dei presero la decisione di incatenarlo per evitare disgrazie. L'impresa era tutt'alto che facile e allora proposero al lupo di farsi legare per misurare la sua forza. Fenrir spezzò con facilità la prima catena che si chiamava Lœðingr (letteralmente: "che lega con astuzia", per metafora: "lenza"), lo stesso avvenne con la seconda catena Drómi (letteralmente: "frenante", per metafora: "catena"). Mandarono allora Freyr (dio della bellezza e della fecondità) nel Regno degli elfi scuri, perché chiedesse ai nani di preparare una catena magica, chiamata Gleipnir (dal verbo gleipa: "spalancare la bocca" o "che deride", oppure "che divora"). Questa fu assemblata con il rumore del passo del gatto, la barba di donna, radici di montagna, tendini d'orso, respiro di pesce, saliva o forse latte di uccello. Apparentemente sembrava un nastro di seta, ma nessuno era in grado di spezzarla.
Gli dei invitarono Fenrir su un'isola di nome Lyngvi, sul lago Ámsvartnir. Il lupo, al vedere quella fragile catena, si insospettì temendo un inganno. Fenrir, accettò di essere legato, ad una condizione: nessuno avrebbe usato la Gleipnir finché qualcuno avrebbe posato la mano sulla sua bocca, come segno di fedeltà al patto. Týr accetta sapendo che così la sua mano sarebbe stata sicuramente sacrificata. Il lupo non riuscì più a liberarsi dalla catena magica, nonostante impegnasse tutta la sua straordinaria forza. Fenrir mozzò all'istante la mano di Týr, non appena si accorse di essere stato ingannato. La catena fù fissata a terra impedendo al lupo ogni tentativo di fuga; Durante questa operazione Fenrir tentò ripetutamente di divincolarsi e di azzannare i suoi carcerieri, questi gli infilarono una spada tra le mascelle, in modo che non riuscì più a chiuderle per mordere. Da allora Fenrir rimase incatenato sull'isola, e così dovrà rimanere sino alla fine del mondo.
Anche Fenrir Greyback è da così tanto tempo lupo mannaro che gli piace esserlo e non è mai riuscito a tornare al suo pieno aspetto umano. Non ha un aspetto esattamente amichevole, per usare un eufemismo, e prova gusto a mordere gli altri per farli diventare come lui. Incontrarlo, per molti mangiamorte è importante, perché per loro rappresenta sicurezza e tutela e benché le sue vicissitudini e i suoi trascorsi siano tutt'altro che trasparenti è sempre prolisso nel dare "buoni" consigli. Draco invece è davvero intimorito da Fenrir Greyback, anche se per necessità lo frequenta, come tanti altri mangiamorte.
Fenrir Greyback cerca di mascherare il suo essere lupo mannaro e mangiamorte, ma nonostante utilizzi il fondotinta per coprire le imperfezioni e il suo sorriso travesta il volto, non può trasformare un essere malvagio in un animo puro, lui gli agnelli li divora, anche se ama portarli al pascolo, ma solo per approfittare di loro.
Raggiungo Palazzo Asinari di San Marzano, un edificio in puro stile barocco, famoso per avere il cortile tra i più fotografati delle guide di architettura piemontese.
Questo Palazzo fu sede dell'Ambasciata d'Austria presso i Savoia, quindi è facile comprendere i drammi e gli intrighi che portarono alle lotte risorgimentali. Divenne poi proprietà della famiglia Carpano, quella famosa per il Vermouth. Il palazzo Asinari di San Marzano fu costruito nel 1684 dal capitano Michelangelo Garove (o Garoe, o Garoes), seguace del Guarini; un'atrio a colonne tortili e lo splendido cortile a sfondo scenografico degli architetti Martinez ed Alfieri lo rendono uno dei più bei palazzi di Torino.
Più avanti il Palazzo Cisterna o per essere precisi, il Palazzo Dal Pozzo della Cisterna, costruito tra il seicento e il settecento. Maria Vittoria Dal pozzo, principessa della Cisterna, era la consorte del Principe Amedeo. Nel 1867 l'ultima erede dei Dal Pozzo sposò Amedeo di Savoia figlio di Vittorio Emanuele II, ed il palazzo divenne quindi dimora dei duchi d'Aosta, i quali promossero il suo completamento con il rifacimento dello scalone e la cancellata lungo il giardino. Fu anche abitato dal 1852 al 1863 da Sir James Hudson, ambasciatore a Torino di sua maestà britannica, amico di Cavour, tanto da essere più volte oggetto di richiamo da parte della corona britannica per qualche sbilanciamento a favore della causa italiana; una lapide posta vicino all'ingresso lo ricorda. Fu collocata solo nel 2010 per ricordare questo straordinario personaggio che fu definito "più italiano degli italiani". Una nota di colore rosa a Palazzo Cisterna è la panchina dove si dice che Nietzsche corteggiasse Maria Vittoria Cisterna.
Il palazzo della Cisterna, ora sede dell'amministrazione provinciale, insieme a palazzo Ferrero della Marmora, palazzo Seyssel d'Aix e di Sommaria, palazzo Caissotti di Chiusano poi del Carretto di Gorzegno, Palazzo Vaudagna poi Barbaroux e palazzo Ponte Spatis poi dei Principi della Cisterna, compongono l'isola dell'Assunta, uno degli appezzamenti di terreno donati nel seicento dai Savoia ai nobili affinché costruissero le loro dimore in città. L'isola è compresa tra le vie Maria Vittoria, Carlo Alberto, Bogino e Giolitti.
Invece nel quadrilatero delimitato dalle vie Maria Vittoria, san Francesco da Paola, Principe Amedeo e Bogino fu istituito nel 1679 il ghetto ebraico. Soltanto nel 1848 con lo statuto Albertino i ghetti piemontesi vennero aboliti e l'isolato acquisì la sua attuale fisionomia ed immagine neobarocca, conservando solo alcune tracce del primitivo insediamento come antichi portici e vecchie cancellate.
Sempre da queste parti, in via san Francesco da Paola, apparirebbe il fantasma della bela caplera (bella cappellaia), il cui negozio si trovava dalle parti di piazza carlina (oggi piazza Carlo Emanuele). Costei fu ghigliottinata perché riconosciuta adultera e assassina ed infatti avrebbe ucciso il marito che aveva scoperto la sua tresca. Si dice che la donna avesse stretto un patto con l'aiutante del boia, perché voleva sapere se, dopo la taglio della testa, si avverte qualche sensazione. La leggenda ci dice che dopo che la lama ebbe compiuto il suo truce compito, il boia raccolse la testa della bela caplera dal cesto e, tenendola per i capelli, la prese a schiaffi: le sue guance diventarono rosse, e dagli occhi uscirono copiose lacrime.



Fine XI parte.