Blog di Dante Paolo Ferraris

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Populismo: un male italiano

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populismoOgni qualvolta ascolto un telegiornale, un radiogiornale o leggo un quotidiano, mi arrabbio per quanto ascolto, sento o leggo. La campagna populistica lanciata da alcuni partiti e altri movimenti politici contro le Province mi pongono nel dubbio se costoro sono a conoscenza di quello che stanno affermando o se vince sempre il modello populistico o dell'interesse del più forte. Le accuse principali riguardano i costi e lo snellimento burocratico.
Credo sia il momento di fare un po' di storia su questa istituzione.
Le Province odierne trovano fondamento legislativo nella normativa con il Regno sabaudo, dove l'ordinamento definito dal Regio decreto 3702 del 23 ottobre 1859, il cosiddetto Decreto Rattazzi, fissava sul modello francese l'organizzazione del territorio in enti di diverso livello. La Provincia nacque come ente locale intermedio, dotato di propria rappresentanza elettiva e di amministrazione autonoma: un collegio deliberante di durata quinquennale, il Consiglio Provinciale, un organo esecutivo - amministrativo di durata annuale, la Deputazione Provinciale, eletta dal Consiglio ma presieduta e convocata dal Governatore, poi Prefetto, di nomina regia. I consiglieri si rinnovavano per un quinto ogni anno per sorteggio.
Le prime elezioni provinciali ebbero luogo il 15 gennaio 1860.
Nel 1865 la prima legge comunale e provinciale dello stato unitario italiano, detta Legge Lanza (legge 20 marzo 1865, n. 2248), istituì quale organo esecutivo della Provincia la deputazione provinciale (e deputati provinciali erano detti i suoi membri), eletta dal consiglio provinciale ma presieduta dal prefetto, investita anche di funzioni di controllo sulle amministrazioni comunali. Con la legge 30 dicembre 1888 n. 5865 la "tutela", ossia il controllo di merito sugli atti delle amministrazioni locali, fu trasferita dalla deputazione provinciale a un organo di nuova istituzione, la giunta provinciale amministrativa (da non confondersi con la giunta provinciale), presieduta dal prefetto e composta da due consiglieri di prefettura e da quattro membri effettivi (più due supplenti) eletti dal consiglio provinciale. Sempre con tale legge venne cancellata la legislazione amministrativa asburgica che era stata fino ad allora mantenuta viva in Toscana per le sue avanzate caratteristiche. Tale normativa fu poi estesa al Veneto nel 1867 e al Lazio nel 1870. Con tale legge la Deputazione passò a rinnovarsi per metà ogni anno, dando più stabilità alla carica di deputato provinciale.
Con il testo unico comunale e provinciale del 1889 fu introdotta la figura del Presidente della deputazione provinciale, eletto dalla stessa e diverso dal presidente del consiglio provinciale, separandone la figura da quella del Prefetto.
Veniva inoltre allargato il suffragio amministrativo per censo, includendovi il ceto medio.
Nel 1894, per dare maggiore stabilità, la durata del Consiglio veniva portata a sei anni, con rinnovo triennale di metà dei consiglieri scelti per sorteggio. La Deputazione si rinnovava invece per intero ogni tre anni, e a tale termine venne coordinata la carica del Presidente.
La principale riforma dell'istituto della Provincia giunse con il Testo unico della legge comunale e provinciale nel 1915: Consiglio e Deputazione furono da allora eletti integralmente ogni quattro anni. Con l'art. 14, inoltre, il suffragio universale già previsto dal 1913 alle elezioni politiche, venne esteso alle elezioni amministrative.
Il Testo unico della Legge 4 febbraio 1915 allontanava il sistema amministrativo italiano dallo schema francese napoleonico, nell'intento di attuare una maggiore democrazia.
Nel 1922 Il regime fascista, con tendenze accentratrici e antidemocratiche, abolì il criterio elettivo nella formazione degli organi provinciali. Consiglio e Deputazione furono sostituiti da Rettorato e Preside, di nomina regia, che accentrava le competenze della Deputazione e del suo presidente (secondo la legge comunale e provinciale del 1928 un preside in luogo della deputazione e un rettorato, composto da 4 a 8 rettori, in luogo del consiglio).
Con la caduta del fascismo, l'amministrazione provvisoria delle Province fu disciplinata con R.D.L. 4 aprile 1944, n. 11 che la affidò, in attesa del ripristino del sistema elettivo, a un presidente e a una deputazione provinciale, nominati dal prefetto.
Il dopoguerra portò il voto alle donne anche a livello provinciale, grazie al Decreto Luogotenenziale 23/1945. Le Province furono ricostituite lentamente in senso democratico: prima con il ripristino delle Delegazioni nel 1945, quindi con la ricomparsa dei Consigli provinciali nel 1951. Con la legge 8 marzo 1951, n. 122 fu ripristinato il sistema elettivo e la deputazione provinciale assunse l'attuale nome di giunta provinciale.
La Legge fissava a 45 il numero massimo dei consiglieri provinciali, e a otto i membri della Giunta provinciale, che sostituiva la Delegazione come organo esecutivo.
Un importante riforma venne con la Legge 142/1990; Comuni e Province potevano adottare un proprio Statuto e istituire regolamenti. La stessa legge prefigurava un nuovo istituto, la città metropolitana, per le aree urbane più dense.
Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 fu introdotta l'elezione diretta del presidente della provincia e correlativamente la nomina dei componenti della giunta da parte dello stesso, mentre fino ad allora erano stati eletti dal consiglio provinciale. In questo modo la forma di governo della provincia, in precedenza riconducibile al modello parlamentare, fu avvicinata al modello presidenziale.
Le ultime evoluzioni sono quelle del Testo unico sull'ordinamento delle autonomie locali (Legge 267/2000) e la conversione del decreto-legge 4 dicembre 2011, dove si prevede il mantenimento delle Province, come esclusivo organo di coordinamento intercomunale.
Fintanto che lo scorso autunno, con una azione populista, il Governo Monti, trova nelle Province il capro espiatorio dei mali della politica italiana, accontentando i movimenti popolari stanchi degli scandali dei politici, spinti dagli interessi delle Regioni e dei grandi Comuni, presentando in Parlamento un decreto per ridurre da 86 a 51 il numero delle Province, ma il Parlamento fece decadere il provvedimento.
Tutti i partiti, con poche esclusioni, costruirono la successiva campagna elettorale proponendo lo scioglimento delle Province continuando così la campagna contro le stesse.
L'abolizione delle Province fornisce alla politica un robusto argomento per trovare un'intesa tra i poli della politica italiana, per dimostrare con i fatti che si vuole davvero tagliare i costi della politica.
Visto che i risparmi dall'abolizione delle Province sarebbero minimi mentre i disservizi sarebbero molti, la domanda reale che mi pongo è a chi giova?
Il tema dell'abolizione delle Province è diventato il modello - come scrive il prof. Guido Clemente - "di un diffuso 'qualunquismo', spiegabile con l'interesse a conservare soprattutto la credibilità degli esponenti politici agli occhi della opinione pubblica e, per un altro, di una scarsissima conoscenza dei problemi sottesi alla richiesta di abolizione, sia sotto il profilo giuridico, sia sul piano sostanziale". Per questo motivo tale comportamento non è giustificabile, complici i mass media che non forniscono un informazione corretta ma cavalcano l'opinione pubblica favorendo la disinformazione. Non contribuisce a ciò nemmeno la stampa d'inchiesta, sebbene la funzione di questa sia indispensabile, mentre pare più alla ricerca di accattivarsi "audience" che fare analisi e ricerca.
Prima di abolire l'ente provinciale, a mio avviso, occorre chiedersi se non vi siano alternative a tale soluzione. Sciogliere le Province, ente di governo intermedio, democraticamente eletto e lasciare in vita organizzazioni come Camere di commercio, Consorzi industriali, Consorzi di bonifica, Autorità portuali, Motorizzazione Civile, ma anche le stesse Prefetture e i vari comandi delle molteplici forze di Polizia e molti altri costosissimi enti non previsti dalla Costituzione sarebbe un vero schiaffo a chi vuole razionalizzare la spesa pubblica.
Fortunatamente si inizia a comprendere che abolendo le Province non si abolisce anche la spesa da esse gestita, ma si può soltanto ridurla. Perché le funzioni che attualmente svolgono le Province restano e quindi la spesa non può essere azzerata.
Il legislatore può disfarsi delle Province con un tratto di penna, può cancellare un pezzo di storia, può cancellare le autonomie locali di coordinamento per gettarle al macero, facendo vincere il populismo sulla razionalità. Non sarebbe più facile eliminare la pletora di enti inutili, peraltro mai previsti dalla Costituzione? Non sarebbe economicamente più vantaggioso accorpare i piccoli comuni, portare le Regioni a organo legislativo e non di gestione? Oppure l'intento recondito di questi pseudo riformatori è parso solo quello di impegnare il Parlamento in sterili dibattiti o peggio ancora accentrare il potere su poche istituzioni, mascherando il tutto come Democrazia e volontà popolare, spostando l'attenzione del cittadino sulle Province anziché sugli scandali della politica italiana?
Vi è invece l'esigenza di una riforma complessiva dei vari livelli di governo in cui si articola la nostra Carta Costituzionale anziché toccare soltanto le province, elemento più debole della catena, reso tale dalla ottima campagna di disinformazione.
Troppe domande sono senza risposta, a cui la politica dovrà dare una risposta senza perdere d'occhio il bene comune e non l'interesse di alcune lobby.