Le mie conoscenze sulla città sono limitate, questo non diminuisce la mia voglia di conoscere e studiare, anzi stimola la mia curiosità.
Ogni qualvolta mi ci reco, cerco di ritagliarmi qualche ora per passeggiare per il centro e mettere il naso nei suoi piccoli vicoli, rapire con gli occhi tutti quei particolari caratteristici della gente padovana, ma anche ascoltare il vociare di piazza delle Erbe.
L'ultima volta, quella che ispira questo post, era ovviamente una così detta toccata e fuga, in cui mi ritaglio quel poco tempo necessario per fare due passi con il mio amico e collega Flavio.
Un grande parcheggio s'affaccia su Prato della Valle, la più grande piazza della città e tra le più grandi d'Italia e d'Europa, con i suoi di 88 mila m². Il suo disegno è caratterizzata da un'isola ellittica centrale, chiamata isola Memmia, circondata da un corso d'acqua sulle cui sponde si trova un doppio anello di statue.
In periodo romano ed altomedievale l'area era nota come Campo di Marte o Campo Marzio perché destinata, tra le altre funzioni, a raduni militari. Successivamente l'area fu indicata sia come "Valle del Mercato", per i mercati e le fiere stagionali che qui avevano sede.
Il termine Pratum veniva usato, durante il medioevo, per indicare un ampio spazio destinato ad usi fieristici che spesso, non era lastricato ma posto a prato. Il termine Valle sta a significare invece un "luogo basso" e "luogo paludoso", quindi soggetto ad allagamenti. Durante il periodo sabaudo lo spiazzo fu titolato Piazza Vittorio Emanuele II, ma comunque, nell'uso comune, i padovani continuarono a utilizzare il toponimo storico di Prato della Valle.
La città Patavium è stata definita "capitale della pittura del Trecento" infatti le testimonianze pittoriche del XIV secolo - tra tutte, il ciclo di Giotto - costituiscono il polo artistico di particolare splendore per ogni turista, ma anche un nodo cruciale negli sviluppi dell'arte occidentale del Medioevo, tanto che dal 1222 è diventata sede di una prestigiosa università che si colloca tra le più antiche del mondo.
In una visita precedente a Padova, mi ricordo di essere entrato nel recinto degli Eremitani, dove un vialetto mi condusse alla Cappella intitolata a Santa Maria della Carità, più nota come cappella degli Scrovegni, luogo che venne affrescato tra il 1303 e il 1305 da Giotto su incarico di Enrico degli Scrovegni, ricchissimo banchiere padovano, a beneficio della sua famiglia e dei padovani in suffragio del padre Reginaldo. Curioso ricordare che Dante, nella Divina Commedia, colloca Reginaldo nel girone degli usurai. Questo rimane comunque uno dei massimi capolavori dell'arte occidentale.
L'edificio era originariamente collegato al palazzo della famiglia Scrovegni (oggi non più esistente), fatto erigere dopo il 1300, seguendo il tracciato ellittico dei resti dell'arena romana.
La cappella vista esternamente non attira particolare attenzione, alta e stretta, ha una semplice facciata in laterizio con al centro una porta rettangolare con lunetta, arricchita da una elegante trifora gotica posta in alto e con un coronamento ad archetti. L'interno è a navata unica, a forma rettangolare interrotta da due amboni posti sulle pareti laterali, a cui sono accostati due altari, con un'abside poligonale.
Le pareti sono un capolavoro della pittura del Trecento italiano: colore, luce, narrazione e pathos la rendono unica, offrendo sensazioni forti e calde. Il senso di umanità e di fede fusi assieme sembrano raccontare negli affreschi la sensazione del creato e della natura suo frutto, incrociando il tutto con le storie della Madonna e di Cristo. Il ciclo pittorico della Cappella si sviluppa in tre temi principali suddivisi in 38 riquadri: gli episodi della vita di Gioacchino e Anna, gli episodi della vita di Maria e gli episodi della vita e morte di Cristo. Il racconto elegiaco che inizia dolcemente con gli episodi della vita di Maria si fanno sempre più drammatici in un crescendo accelerato fino alle scene della passione, raggiungendo l'acme del dramma con la scena della deposizione di Gesù dalla croce, letto nei volti di Maria e Gesù. In basso a questi affreschi, quasi a formane lo zoccolo, una serie di riquadri illustra le allegorie dei 7 Vizi capitali (Stoltezza, Incontinenza, Ira, Ingiustizia, Infedeltà, Invidia e Disperazione) e delle 7 Virtù (Speranza, Carità, Fede,Giustizia, Temperanza, Fortezza e Prudenza). Nella controfacciata un enorme grandioso dipinto rappresenta il Giudizio Universale, con il quale si conclude la narrazione della salvazione umana, in cui è rappresentato lo stesso Scrovegni. Un vero libro di storia biblica leggibile da chiunque.
La nostra passeggiata per Padova continua dirigendoci verso il centro, attraverso via Umberto I. Imboccando da Prato della Valle via Umberto I, incontriamo sulla destra la settecentesca Chiesa di San Daniele, intitolata ad uno dei quattro patroni della città. Di fronte si trova la casa in cui si dice nacque nel intorno al 1500 Angelo Beolco detto Ruzzante o Ruzante, commediografo padovano principe dei vernacolisti padovani, che creò la macchietta del Ruzzante, ovvero del brontolone. Il nome "Ruzzante" era ed è diffuso ancora oggi in un'area geografica denominata Pernumia che il Beolco frequentava. Quello di Ruzzante era il ruolo che Beolco stesso interpretava nella messa in scena in quasi tutte le sue commedie. Morì nel 1542 a soli 40 anni, e venne sepolto nella chiesa di San Daniele.
Il drammaturgo, attore, scrittore e scenografo italiano Dario Fo, durante la consegna del Premio Nobel per la Letteratura del 1997, così definiva Ruzzante: «Uno straordinario teatrante della mia terra, poco conosciuto... anche in Italia, ma che è senz'altro il più grande autore di teatro che l'Europa abbia avuto nel Rinascimento prima ancora dell'avvento di Shakespeare. Sto parlando di Ruzzante Beolco, il mio più grande maestro insieme a Molière: entrambi attori-autori, entrambi sbeffeggiati dai sommi letterati del loro tempo. Disprezzati soprattutto perché portavano in scena il quotidiano, la gioia e la disperazione della gente comune, l'ipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia»
Subito dopo, sulla sinistra della via, troviamo con la caratteristica merlatura e alta torre medioevale, il Palazzo feudale Capodilista, una importante residenza duecentesche, tra le poche rimaste intatte in città. La sua facciata romanica ha una splendida trifore balconata. Purtroppo il portone è chiuso e non abbiamo modo di vedere l'atrio del Palazzo in cui è conservata la lapide funeraria di Tito Livio, morto a Padova nel 17 d.C.
Proseguendo, prima dell'incrocio con via XX Settembre, si sente ad un tratto un gran bisbigliare che giunge da lontano e richiama la mia attenzione: un vociare d'altri tempi, in un dialetto antico che pare giungere da via Rogati e ci richiama davanti ad vecchia casa contrassegnata con il civ. 8, dove una lapide fatta apporre dal comune di Padova ricorda che in questa zona nacque Andrea Palladio.
Le voci che continuo a sentire sono quelle di Marta detta la Zota ("la zoppa") una semplice donna di casa che richiama per il pranzo il piccolo Andrea, prima del rientro in casa del padre Pietro, detto "della Gondola" di professione mugnaio.
Andrea nacque a Padova, il 30 novembre 1508, che allora era dominata dalla della Repubblica di Venezia, da una famiglia di umili origini. Fu lo scultore Vincenzo Grandi, suo padrino di battesimo, il primo che lo avvicinò alla scultura, al disegno, al progetto.
Il giovane Palladio visse gli anni della guerra e lo scontro tra la Repubblica di Venezia, che allora dominava Padova, e gli eserciti degli stati europei e italiani che gli avevano dichiarato guerra.
A 13 anni entrò come garzone nella bottega di Bartolomeo Cavazza, uno dei migliori tagliapietre della città. Si trasferì con la famiglia a Vicenza all'età 15 anni e si presentò subito alla bottega di Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo Pittoni, come garzone degli scalpellini.
Dopo l'iscrizione alla corporazione dei muratori, scalpellini e scultori di Vicenza e anni di pratica e di studio l'arte, sopratutto grazie all'incontro per lui molto importante con Gian Giorgio Trissino, che lo aiutò a capire le regole costruttive di Vitruvio, iniziò una carriera importante come uno dei maggiori architetti del suo secolo. Le sue opere si sono tramandate fino ad oggi, dalle più belle ville venete come Villa Pisani a Lonigo (1542), Villa Pojana a Pojana Maggiore, Villa Chiericati a Vancimuglio, Villa Pisani a Montagnana, Villa Cornaro a Piombino Dese (1552), Villa Badoer a Fratta Polesine (1554), Villa Barbaro e il Tempietto Barbaro a Maser, Villa Emo a Fanzolo, Villa Foscari (detta la Malcontenta) a Malcontenta di Mira, Villa Almerico-Capra (La Rotonda), ma anche importanti edifici come la Basilica Palladiana, il Teatro Olimpico e ancora Convento della Carità, la Chiesa di San Giorgio Maggiore, la facciata della Chiesa del Redentore a Venezia.
Fu grazie e con la conoscenza di Trissino che risale il cambiamento del nome nel Palladio, con cui firmerà le sue opere. Andrea Palladio si sposò nel 1534 con Allegradonna dalla quale ebbe cinque figli. Nel 1570 pubblicò la sua opera teorica, "I Quattro Libri dell'Architettura". Morì a Maser nel 1580 e venne sepolto nella Chiesa di Santa Corona a Vicenza.
Mi piacerebbe approfondire il periodo giovanile dell'artista scoprendo e apprezzando, magari da lui accompagnato, alcune suggestive contrade della città abitate da barcaioli e mugnai come il borgo Rogati e il borgo della Paglia, scrigni di antichi palazzi e dimore patrizie.
Di lui Goethe disse «V'è davvero alcunché di divino nei suoi progetti, né meno della forza del grande poeta, che dalla verità e dalla finzione trae una terza realtà, affascinante nella sua fittizia esistenza. (Goethe nel suo diario di viaggio in Italia).
Alla fine della via Umberto I, sulla sinistra, ammiriamo fugacemente l'elegante Casa Olzignani, del 1446 una delle più graziose residenze di architettura padovana di quel periodo.
Via Umberto I prosegue cambiando il nome in via Roma, dopo aver attraversato il ponte delle Torricelle e riviera Tito Livio, un tempo percorsa dal canale del Naviglio Interno, sulle cui rive si trovava, sulla sinistra dell'area occupata dal Bo, un fiorente porto fluviale romano, già in uso nel I secolo a.C.
I nostri passi corrono veloci verso il centro, dopo aver fatto una brevissima sosta per mangiare un panino, troppo poco tempo abbiamo per vedere Padova e soffermarci a gustare prelibatezze padovane come i Bigoli che sono il primo piatto più noto del padovano. I Bigoli sono un prodotto della tradizione contadina in uso fin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. Pare che nel 1604 un pastaio di Padova soprannominato "Abbondanza" ottenne dal Consiglio della città la concessione e il brevetto per un macchinario di sua invenzione, una specie di torchio per trafilare la pasta, con cui riuscì a produrre diversi tipi di pasta lunga tra cui dei grossi spaghettoni. Questa pasta lunga dalla superficie ruvida fu i battezzata "bigolo" e lo strumento per ottenerli fu chiamato bagolaro.
Fine I parte.