Blog di Dante Paolo Ferraris

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Luci ed ombre a Torino (XX parte)

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Sibilla CoomanTornato nella capitale sabauda in treno, arrivo a Porta Nuova che non è esattamente la stazione londinese di King's Cross dal quale, nella serie della Rowling, parte il treno, completamente rosso, denominato Hogwarts Express, diretto al villaggio magico di Hogsmeade da cui gli studenti della scuola di magia si recano ad Hogwarts.
L'Hogwarts Express, parte sul binario nascosto 9 3/4 e gli studenti per poter accedere devono passare attraverso un muro invisibile situato tra i binari 9 e 10. Tale muro è reso invisibile poiché non deve essere scoperto dai Babbani e viene così descritto dalla J. K. Rowling nell'episodio di Harry Potter e la pietra filosofale:« Una locomotiva a vapore scarlatta era ferma lungo un binario gremito di gente. Un cartello alla testa del treno diceva "Espresso per Hogwarts, ore 11". Harry si guardò indietro e, là dove prima c'era il tornello, vide un arco in ferro battuto, con su scritto "Binario Nove e Tre Quarti". Ce l'aveva fatta.»
Ma il treno che mi ha riportato a Torino non è un Hogwarts Express, ma un normalissimo e vetusto locomotore, con carrozze pulite ma che dimostrano tutta la loro età, lontano dall'idea dello sbuffante treno a vapore descritto dall'autrice e ben rappresentato nel film.
Mi piacerebbe aver più tempo a disposizione per poter descrivere la stazione di Porta Nuova, ma il tempo è tiranno e perciò tento senza successo di cercare il busto di Paleocapa, mentre faccio ciò, mi soffermo ad ammirare la sala d'attesa meglio conosciuta come sala Gonin, dal nome del pittore che nell'800 l'affrescò. All'interno di questa sala un ciclo di pitture raffigurano gli elementi della Natura (Terra, Acqua, e Fuoco), attraverso i personaggi mitologici che li rappresentano, così quella della Terra è associata al Trionfo di Cerere, mentre all'Acqua e al Fuoco sono affiancate Venere e Proserpina. Ai quattro angoli sono riportati i quattro continenti, Europa, Asia, Africa e Americhe, raffigurati da carte geografiche rette da angeli o putti. I dipinti sono impreziositi da fregi in chiaroscuro, ornati da festoni di frutta e putti realizzati da Pasquale Orsi, autore anche dei mobili intarsiati che arredano l'ambiente.
La Sala prende il nome di sala di prima classe e successivamente quello di Sala Reale, poiché veniva utilizzata dai Savoia come sala d'attesa. È stata progettata nel 1861 dall'Ing. Alessandro Mazzucchetti e riaperta al pubblico nel 2009 per festeggiare la fine dei lavori di restyling realizzati dal Gruppo Grandi Stazioni. Purtroppo la visita a questa sala è possibile solo dietro una richiesta particolareggiata da inviare al gruppo grandi stazioni.
Sempre nel 1864, l'allora biglietteria della stazione della prima capitale del Regno d'Italia fu arricchita da prestigiosi affreschi rappresentanti gli stemmi araldici delle città italiane assumendo il nome "Salone degli Stemmi, ancor'oggi visitabile, benché non svolga più il suo antico ruolo, ma solo da luogo di transito ed accesso da via Nizza. La stazione di Porta Nuova, fu costruita in occasione dell'Unità d'Italia e fu il risultato di una felice collaborazione tra Alessandro Mazzucchetti (ingegnere biellese) e Carlo Ceppi (architetto torinese). Della originaria stazione, solo la sua facciata e i corpi di fabbrica laterali sono originali, infatti una grande volta o tettoia ad archi di ferro e vetro che ricopriva il fabbricato viaggiatori furono demoliti per necessità bellica tra il 1940 e 1941, stessa sorte ebbe un chiosco ottagonale realizzato nel 1911. Altri danni subì durante i bombardamenti anglo-americani durante la seconda guerra mondiale. Il lato arrivi aveva come uscite via Nizza, mentre le partenze su via Sacchi. Proprio sul lato arrivi, all'interno della stazione una lapide ricorda Davalle Bruno e Laurenti Battista, il primo appena venticinquenne e di professione macellaio, il secondo studente ventiquattrenne e comandante di brigata nell'8 divisione autonoma Vall'Orco, entrambi fucilati nella stazione ferroviaria. Il fronte della stazione ferroviaria che dà su corso Vittorio Emanuele II e su Piazza Carlo Felice è organizzato su un fronte di un doppio ordine di arcate, aperte al piano terra e chiuse da vetrate policrome al piano superiore.
Su un pilastro del porticato della stazione verso via Nizza, una lapide invece ricorda Ariotti Edoardo, partigiano del 3° settore Sap, residente a Torino in via Berthollet, caduto appena ventenne per mano fascista nelle giornate preinsurrezionali. Ma tante sono le storie che la stazione di Porta Nuova può raccontare, come le tragiche storie di tutti coloro che da Porta Nuova sono partiti, spesso per un viaggio di non ritorno come i deportati destinati ai campi di transito o direttamente nei lager nazisti. Gruppi di uomini e donne venivano radunati all'alba dentro il carcere delle Nuove e trasportati alle prime luci del mattino in stazione. Il primo trasporto partì il 13 gennaio 1944 con destinazione Mauthausen, 50 persone caricate su un carro bestiame, un secondo trasporto lasciò Torino il 18 febbraio 1944 sempre con destinazione Mauthausen, tragedia che si ripeté per molte volte. Ma la stazione di Porta Nuova vide anche il rientro di chi fu fortunato e tornò superstite. Ricorda Ferruccio Baruffi " Quel 9 giugno 1945 a Porta Nuova, scendemmo dal convoglio a piccoli gruppi. Afro ed io ci recammo in un bar, sotto i portici di via Sacchi, erano circa le tredici ed il locale era affollato e rumoroso. Al nostro ingresso, di colpo, i presenti si allontanarono di qualche passo e si fece improvvisamente silenzio…Afro ed io ci guardammo in faccia attentamente, come se ci vedessimo per la prima volta. E ci siamo "visti" come eravamo" (Baruffi, 1993 – La nascita della associazione di ex deportati, in Cavaglion A., il ritorno dai lager.cit)
Nel 1974 la città ha voluto ricordare i deportati torinesi da Porta Nuova con una lastra in rame, posta sul lato arrivi di via Sacchi:" Da questa stazione /i deportati politici per i campi di sterminio nazisti / A chi rimaneva lasciarono la consegna/di continuare la lotta contro il nazifascismo/per indipendenza e la libertà". Un'altra lapide affissa alle pareti della stazione, ma sul lato di via Nizza, ricorda i ferrovieri del compartimento di Torino caduti nella resistenza.
La linea ferrata fece la sua comparsa a Torino il 24 febbraio 1848, quando fu inaugurata la tratta ferroviaria Torino-Moncalieri, primo Tronco della Torino-Genova di 159 Km, completata nel 1853. In Piemonte le linee ferroviaria furono realizzate soprattutto per facilitare gli scambi commerciali, a differenza di quegli altri stati pre-unitari che realizzarono brevi tratti ferroviari come immagine spettacolare del potere (Napoli-Portici). Negli anni precedenti l'unità d'Italia le linee ferroviarie del Regno si svilupparono rapidamente per 835 Km. Lo stesso Napoleone III riconobbe l'importanza strategica che ebbero le linee ferroviarie per lo spostamento delle armate nelle zone di guerra come la Torino- Novara, oltre alla Torino Genova ed alle linee secondarie per Savigliano, Pinerolo e Susa che fu poi prolungata fino a Modane nel 1870, dopo l'apertura della galleria del Frejus. Fino alla costruzione della Stazione di Porta Nuova i treni partivano dall'"imbarcadero" poi sostituita dalla eclettica stazione Porta Nuova. Proseguo la mia strada sotto i portici di via Nizza, una volta zona in cui potevi fare incontri poco piacevoli, essendo stata per lungo tempo zona di spacciatori di stupefacenti e piccola delinquenza. Ora zona tranquilla, con eleganti negozi, decorose strutture alberghiere e chioschi fra una colonna e l'altra del porticato, popolati da venditori di anticaglie, giocattoli e souvenir. Sono anche più tranquille e meno invadenti le peripatetiche, di varia nazionalità che cercano di abbordare clienti che camminano solinghi.
Davanti al civico 3 di via Nizza trovo una lapide che ricorda il sacrificio del commerciante Maniero Giacomo che ivi cadde presso la propria abitazione il 27 aprile 1945.
Mentre al civico 4 di via Nizza un'altra lapide ricorda l'uccisione di due agenti di polizia ausiliaria, caduti dopo la liberazione, durante un operazione di controllo alla stazione di Porta Nuova. Si tratta di Alberto Cavallera e Antonio Lemma che il 10 giugno 1945, quando un terzo membro della pattuglia, il partigiano Ernesto Sesia anch'esso appartenente alla brigata Sap Rissone, fermò nella stazione due individui sospetti, vestiti in borghese ma con un maglione militare. I fermati, in possesso di documenti tedeschi furono portati all'Ufficio disciplina, dopo un sommario interrogatorio furono condotti in un'altra stanza per essere perquisiti. Approfittando di un momento di distrazione, i due misero mano alle pistole con cui aprirono il fuoco e uccisero Alberto Cavallero e Antonio Lemma. La lapide fu collocata al civico 4 di via Nizza, per volontà del sindaco di Torino ove fu la sede della Polizia ferroviaria.
Al civico di via Nizza 5 una altra lapide ricorda Brusisco Alessandro, un giovane ivi residente, ma natio di Refrancore e di professione cameriere, fu il primo caduto della resistenza a Torino. Nei giorni dell'armistizio e approfittando dello sbando del Regio Esercito, si procurò degli esplosivi. In una notte della seconda metà di settembre lanciò dalla finestra della sua abitazione, posta al quarto piano alcune bombe contro le pattuglie tedesche. Si scatenò così una violenta sparatoria e alcuni giorni dopo i tedeschi arrestarono il giovane diciottenne. Mentre lo conducevano nella sua abitazione per una perquisizione, giunto sul pianerottolo si liberò delle guardie che lo trattenevano e si lancio nella tromba delle scale, sfracellandosi.
Via Nizza fa parte del quartiere San Salvario ed è una delle vie più lunghe di Torino, unisce il centro cittadino alla zona periferica del Lingotto.
Anche all'angolo di via Nizza con via Pio V una lapide ricorda Lo Vetere Francesco, di professione archivista presso il commissariato di Barriera di Nizza, appartenente all'organizzazione Franchi, fu colpito da una raffica di mitraglia sparata dai nazifascismi mentre si trovava in compagnia di altri partigiani.
Un'altra tragica storia racconta via Nizza, questa volta una storia da romanzo giallo, con sfumature horror da far inorridire i benestanti. Il fatto avvenne il 7 dicembre 1921 al civico 9 di Via Nizza, alle otto di sera in un appartamento posto al terzo piano. Margherita Palmero, fantesca nel linguaggio di quasi un secolo fa, oggi diremmo domestica, della signora Cogo Carolina e di quella che tutti pensavano sua nipote. Margherita è originaria di Borgo Rio, Comune di Bagnolo, in Provincia di Cuneo, dove la Sigr.ra Cogo passava l'estate nella sua casa di campagna a Barge. Margherita va prima a servizio nella casa di campagna e poi si trasferisce a Torino nella residenza di Tota Cogo. Quella sera, augura la buona notte alle due donne e si ritira nella sua stanza; la Cogo è sul divano che ricama, la nipote Rita è al tavolo che legge un romanzo. Alla mezza, la fantesca sente un urlo agghiacciante, si sveglia di soprassalto, ma non sentendo altri rumori si riaddormenta. Al mattino, la fantesca vede le donne esanimi, nella stessa posizione della sera, esce tranquilla da casa, saluta il portiere, raggiunge il mercato di piazza Madama, si intrattiene con alcune conoscenti che fanno le domestiche in altre case e confidatasi con le fantesche della Contessa Manassero corrono a casa Cogo e trovano morte Carolina Cogo e Rita Bordon e chiamano la Polizia per denunciarne la morte. Gli investigatori raggiungono l'alloggio della famiglia Cogo, una famiglia altolocata, il padre Giovan Battista Cogo era un facoltoso notaio con due figli Carolina e Giovanni, quest'ultimo aveva due figli, Giacinto e Carlo, erano già avvocati, un terzo, Agostino, studiava per diventare Perito chimico. Carolina, invece era nubile e si dice avesse adottato un orfanella, appunto Rita Bordon. Trovano riversa sul divano Carolina, Rita è per terra. La stufa quasi soffoca l'ambiente e la prima ipotesi è la morte per asfissia causata dai fumi della stufa. Ma non c'è odore di fumo e le finestre sono chiuse e, alla mezza, qualcuno ha gridato. Rita ha le scarpe slacciate, la Cogo non ha il busto e sul suo cuscino un poliziotto attento ha notato una macchia scura: forse sangue La Cogo era molto ricca, la porta di casa era intatta e la nipote Rita (figlia adottiva pare) avrebbe ereditato tutto. Carolina Cogo, da anni, era in lite con il fratello Giovanni a causa dell'eredità paterna; eppure il cospicuo patrimonio avrebbe potuto riunirsi alla morte di entrambi nelle tasche dei tre figli di Giovanni, notaio in Barge. Due dei quali conducevano vita agiata nell'appartamento contiguo a quello della zia. L'8 dicembre, la fantesca li accusa e disegna per loro un ruolo da colpevoli. Nella notte del delitto i due l'avrebbero costretta ad aprire la porta per assassinare le donne fingendo una morte per asfissia. Il "caso Cogo" esplose così sui giornali e si arricchì di colpi di scena continui. Dalla prima Carolina accusò Carlo e Agostino che l'avevano costretta con minacce ed un compenso di 200 Lire a mettere in piedi la messa in scena, Tanto basto che i due furono subito arrestati benché respingessero con sdegno le accuse, poi chiamò in causa anche il fratello maggiore l'avvocato Giacinto, che andò a tenere compagnia ai fratelli alle carceri Nuove. Margherita, la fantesca, impazzisce e porta con sé all'ospedale psichiatrico tutte le contraddizioni e cambiamenti di versione dei suoi racconti; Agostino Cogo, ancora minorenne, confessa ad un certo punto si dichiara unico responsabile del duplice omicidio. Voleva rubare dopo avere addormentato zia e nipote, ma la reazione delle donne lo ha costretto ad ucciderle. La Corte gli crede, i fratelli si scagliano contro la pecora nera di una famiglia per bene. La sentenza dice trent'anni che sconterà fino all'amnistia avvenuta dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Per la legge il caso è chiuso ma ancora oggi la versione è poco credibile. Agostino Cogo, la notte del delitto, bussa alla porta della zia: apre la Palmero in cambio di duecento lire diventandone complice. Agostino cerca di addormentare la zia che nel frattempo era andata a letto a dormire, con acido cianidrico rubato nell'aula di chimica. Lei urla e si dimena. La signorina Bordon che era andata a dormire reagisce, ma l'assassino l'addormenta. Torna dalla zia e la finisce. Quindi, con l'aiuto della fantesca, le trasporta entrambe in sala, le riveste, riassetta la stanza da letto e abbandona la scena del delitto. Troppo per un ragazzo magrolino, e di salute cagionevole lottare contro due persone e ucciderle, anche se aiutato in parte dalla fantesca Margherita. Molti periti giurarono sulla presenza di almeno due robuste persone per creare la messinscena.
La stampa dell'epoca ipotizzo anche che Agostino avesse sedotto Margherita, promettendole addirittura il matrimonio e avesse dato appuntamento ad una certa ora nell'appartamento della zia, ma una volta aperta la porta all'amato, l'ansiosa attesa si scontrasse davanti ad un trio diversamente intenzionato e che l'inganno, la farsa dell'innamoramento l'avrebbero fatta poi impazzire, tanto che la giovane ed ingenua ragazza di paese fu rinchiusa nel manicomio femminile, dove sarebbe poi morta qualche anno dopo. Agostino invece uscito dal carcere si stabilì a Pavia, ebbe una relazione sentimentale con Maria Salamina di Casalpusterlengo, ma nonostante ciò non riusci a reintegrarsi nella società. Accusato di furto di medicinali si suicidò con una fiala di cianuro, seduto ad un bar di Ventimiglia il 24 giugno 1948.
Sul lato opposto, dopo il primo tratto occupato dagli uffici ferroviario e delle poste e telegrafi, vi è un grande edificio religioso occupato dalle Suore di San Vincenzo de Paoli, annesse alla vicina chiesa di San Salvatore di Campagna, che passa inosservata alla maggioranza dei turisti e anche a molti torinesi.
Questa chiesa venne edificata nel 1646 dall'architetto ducale Carlo di Castellamonte al posto di un'antica cappella. Fu Madama Maria Cristina di Francia che volle erigerla sulla strada che portava al vicino Castello del Valentino. La chiesa si trova in via Nizza, proprio all'inizio dello stradone alberato, ora corso Marconi, progettato alla fine del Cinquecento per raggiungere il castello.
Successivo è il Convento dei Servi di Maria, costruito su progetto di Amedeo di Castellamonte, nel 1653. L'Ordine religioso omonimo prese possesso della chiesa per tenerlo fino al 1802. Nel 1837 Carlo Alberto assegnò il convento di San Salvario alle suore di San Vincenzo De' Paoli. Solo nel 1865, con la consacrazione della chiesa dei Santi Pietro e Paolo in largo Saluzzo, venne soppresso il titolo di parrocchia. Il convento subì diverse ampliamenti.
La chiesa, anche ad un occhio non attento, presenta una facciata a doppio ordine con tre aperture al piano terra e cinque al piano superiore. un basso tamburo ottagonale termina con una copertura a falde in coppi. L'interno, mi dicono perché non vi sono mai potuto accedere, è uno spazio rettangolare con due cappelle laterali, breve presbiterio e piccolo coro. Anticamente la parte retrostante del convento, aveva due chiostri e giardini, poi demoliti a metà Ottocento per costruire la stazione ferroviaria.
Subito di fronte, all'incrocio tra via Nizza e Via Marconi, scorgo con immenso piacere Sibilla Patricia Cooman (Sybill Patricia Trelawney). Nella Hogwarts della J. K. Rowling è l'insegnante di divinazione, nella mia Hogwarts è proprio una cara amica di belle avventure. La Sibilla del romanzo è un insegnate molto apprezzata da parte di alcune studentesse ma fortemente odiata da altre. È un'insegnante alquanto strana, che molti ritengono scarsamente dotata del dono della divinazione. È infatti osteggiata anche da alcuni docenti come la prof. McGranitt, che ritengono la divinazione una branca imprecisa e confusa della magia.
La professoressa Cooman è una donna alta e molto magra, sempre avvolta da scialli e rumorosi braccialetti, porta degli spessi occhiali da vista che ingrandiscono orrendamente i suoi occhi.
Nella mia Hogwarts è invece di corporatura più che robusta, con un bel viso tondo e pasciuto, indossa anch'essa con grandi scialli, amante dei viaggi e degli animali, costantemente accompagnata dal suo cagnolino di pura razza meticcia. Insegnante dalle grandi capacità didattiche, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e nel tessere rapporti con le persone in forte disagio, facendosi sempre ben volere.
L'incontro avviene in prossimità di una stele circondata da una piccola aiuola, che purtroppo ora funge da spartitraffico; la stele è un importante monumento che ricorda una delle più importanti pagine del Risorgimento italiano. La stele ricorda quello che venne definita la "promessa patriotica": Sulla base dell'obelisco è inciso "Qui l'11 marzo 1821 fu giurata la libertà d'Italia. Il 20 settembre 1870 il voto fu sciolto in Roma", la stele fu ivi posta nel 1873 dal municipio di Torino. Volendo ripercorre quei giorni del 1821, occorre precisare che in quei tempi quella non era una zona centrale di Torino. Gli eventi hanno inizio in piazza castello quando un moto popolare, guidato da Santore di Santarosa portò all'abdicazione di Vittorio Emanuele I in favore del fratello Carlo Felice, in assenza del quale Carlo Alberto in qualità di reggente concesse la Costituzione tanto invocata. Una temporanea idea di libertà, infatti la Costituzione fu revocata da Carlo Felice, giungendo a chiedere l'intervento degli austriaci che sconfissero i patrioti di Santarosa a Novara.
Passarono alla storia le parole del Santarosa: "Soldati e guardie nazionali, le circostanze straordinarie vogliono risoluzioni straordinarie…Fate il vostro dovere", rivolto all'atteggiamento del re, il Santarosa continuava "un re piemontese in mezzo agli austriaci, nostri dichiarati nemici, è un re prigioniero; tutto quanto egli dica, non si può, non si deve tenere come suo. Parli in terra libera e noi gli proveremo d'essere suoi figli". Frasi quanto mai audaci e ricolme di false speranze, infatti quando il re entrò in Torino continuò a guidare la capitale con antipatia e distacco, ritenendo le classi sociali borghesi e popolari infide, come infami riteneva i professori che insegnavano in Università. Del popolo diceva: "il est comme un enfant qui croit tout qu'on lui conte; aujord'hui il crie osanna et demani crucifige". Fu allora che i patrioti si raccolsero nell'attuale via Nizza e ivi giurarono di lottare, anche a costo della vita, per raggiungere l'obiettivo di unire l'Italia. Quel giuramento ebbe sacralità del voto, sciolto poi in Roma dopo la presa di porta Pia, quando anche l'Urbe fu unità all'Italia.
Mi soffermo a parlare con Sibilla Patricia Cooman, che mi stringe in un forte abbraccio e non si stanca mai di dire che mi pensa e vuole bene. Rammentiamo i momenti felici passati insieme, i viaggi e le attività che riuscimmo a costruire, ma anche dei mangiamorte ancora presenti e delle sofferenze dei babbani, degli inganni e delle ipocrisie che reggono oggi la Hogwarts torinese
Deve raggiungere Azkaban dove adesso lavora e dove deve convivere con una moltitudine di dissennatori. Ci salutiamo con un caloroso abbraccio, con la promessa di rivederci prestissimo per cenare insieme a pochi e veri amici.
Via Nizza raccoglie molte lapidi che ricordano terribili eccidi, come quella al civico che ricorda Fontanelle Luciano e Gasparini Pietro uccisi il 26 aprile 1945. Il primo era nato il 24 marzo 1924, già in precedenza arrestato e torturato, perché impegnato nel presidio partigiano nelle vicine Officine Riv, cadde insieme con Gasperini colpito da un ordigno lanciato da militi fascisti. Il Gasperini, con solo vent'anni di età, apparteneva come partigiano al 1° gruppo divisioni alpine, già in precedenza rimasse ferito ad una gamba in uno scontro a fuoco in un posto di blocco a Ceva.
Lo sguardo corre lungo Corso Marconi, rivolto verso il Castello del Valentino, prima di addentrarmi nel cuore del quartiere di San Salvario. Sono felice di aver incontrato la mia Sibilla Patricia Cooman, mi è stata vicina nei momenti più oscuri, quando sono stato posseduto dalle malefiche arie del signore oscuro.



Fine XX parte.