Subito mi colpiscono due lapidi, che con Flavio guardiamo con attenzione, sono poste al civico 21 su una casa assolutamente normale, quasi povera, senza fregi ed emblemi. Esse ci ricordano due illustri abitanti, o quanto meno noti al sottoscritto perché ebbi modo di leggere alcune opere e la storia della loro vita.
Il primo è Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati (Rovereto, 24 marzo 1797 – Stresa, 1º luglio 1855), conosciuto come il beato Rosmini, filosofo e sacerdote. A diciannove anni si iscrisse a Padova alla facoltà di teologia, dove conobbe Niccolò Tommaseo a cui sempre lo legherà una profonda amicizia. Il beato Rosmini si laureerà il 23 giugno 1822 nell'ateneo patavino. Negli anni vissuti a Padova si distinse per la sua acuta intelligenza e per la chiara visione dei bisogni e iniziò a concepire anche il progetto di una Enciclopedia cristiana italiana, come risposta cattolica alla Encyclopédie di Diderot e d'Alembert. Dopo aver conseguito la laurea, prese i voti a Chioggia e rientrò nella natia Rovereto (TN), per poi trasferirsi a Milano nel 1826, dove conobbe e strinse un profondo rapporto d'amicizia con Alessandro Manzoni che di lui ebbe a dire: «è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l'umanità». Fu lo stesso Manzoni che assistette Rosmini sul letto di morte e da cui trasse il testamento spirituale "Adorare, Tacere, Gioire". Fu anche in amicizia stretta con Vincenzo Gioberti
Tornato a Rovereto e poi nel Tirolo dovette ben presto (1828) allontanarsi per screzi con il vescovo di Trento e fondò così, al Sacro Monte Calvario di Domodossola (VCO), la congregazione religiosa dell'Istituto della Carità, detta dei "Rosminiani". A Borgomanero (NO) svolse attività di insegnamento e di guida spirituale in un collegio e fu addirittura impegnato, nel 1848, in una missione diplomatica per conto del Re di Sardegna, Carlo Alberto, presso la Santa Sede.
Seguì successivamente papa Pio IX, rifugiatosi a Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana, ma la sua ideologia attestatasi su ferme posizioni di cattolicesimo liberale era tale per cui presto fu costretto a ritirarsi sul Lago Maggiore, a Stresa,sino alla morte, avvenuta a 58 anni il 1º luglio 1855. In quegli anni scrisse opere come "Logica" e "Psicologia".
Rosmini è sepolto all'interno del Santuario del SS. Crocifisso di Stresa. Sono molto interessanti le corrispondenze intercorse tra il Rosmini ed i Papi Pio VIII e Gregorio XVI e molti altri papi citarono il Rosmini, da Pio IX a Leone XIII e ancora Giovanni XXIII e Paolo VI. Giovanni Paolo II ha annoverato Rosmini «tra i pensatori più recenti nei quali si realizza un fecondo incontro tra sapere filosofico e Parola di Dio». Ma fu il futuro papa Benedetto XVI, quale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che emanò nel 2001 il famoso documento "Nota ai Decreti dottrinali sul Rev.do sac. Antonio Rosmini Serbati", nel quale autorizzò la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto sul miracolo della guarigione di Suor Ludovica Noè, attribuito all'intercessione di Antonio Rosmini.
Fu lo stesso Papa Benedetto XVI a dichiararlo "venerabile" il 26 giugno 2006. La celebrazione della sua beatificazione avvenne a Novara domenica 18 novembre 2007, che per fatalità della storia fu anche il giorno in cui Rosmini nel 1832 iniziò la stesura della sua più nota opera "Delle Cinque piaghe della Santa Chiesa". Non solo, ma entrambe le date corrispondono al giorno di domenica.
Mi piace anche ricordare la figura di Niccolò Tommaseo, a cui è intestata la seconda lapide, vero e caro amico del Rosmini che spesso ne dovette prendere le parti per il carattere risoluto del poeta dalmata. Tra di loro ci fu una profonda amicizia e anche una certa ammirazione che il poeta ebbe per Margherita, sorella del Rosmini, che invece prese il velo nelle Suore di Canossa, per morire poi prematuramente nel 1833.
Niccolò Tommaseo, detto anche Nicolò (nacque a Sebenico il 9 ottobre 1802 e morì a Firenze, 1º maggio 1874, fu un linguista, scrittore e patriota italiano. Al suo nome sono legati il Dizionario della Lingua Italiana, il Dizionario dei Sinonimi e il romanzo Fede e bellezza. Di costui potrei scrivere ore, ma se così fosse non mi basterebbe una sola giornata a Padova per narrare le sue vicissitudini ancor solo patavine. Basti sapere che benché la sua educazione, iniziata nel paese natale e proseguita a Spalato, fu di carattere umanistico e religioso come in uso dai padri Scolopi, e si laureò in legge a Padova nel 1822, ma la sua vita fu caraterizzata da continui scontri , spesso dovuti alla sua intemperanza comportamentale.
Così Giuseppe Solitro scrive dell'arrivo a Padova del Tommaseo: "con viatico della benedizione paterna, con piccolo bagaglio e scarso pecunio, più timido che selvaggio orgogliosamente modesto e tutto armato di punte per respingere l'affetto altrui e la bellezza delle cose di fuori arrivava a Padova". Era l'estate del 1817 e Niccolò, non ancora quindicenne, accompagnato dal Conte Galbani, suo concittadino a cui fu affidato dal padre, fu presentato all'allora prefetto degli studi nel seminario padovano. Dapprima alloggia nella casa Pinzon in Torricelle o meglio nella vecchia via Rialto, oggi Umberto I, e poi nel terzo anno 1820 - 21 si trasferisce a Venezia per continuare gli studi, tornando a Padova solo per gli esami. Ritornò poi ad abitare a Padova, proprio in questa casa in quella che allora era chiamata genericamente via del Santo, dove Don Leonardo Carpentari ospitava una dozzina di alunni, tra i quali vi era il Rosmini. Pertanto la lapide affissa per volontà del Congresso della Dante Alighieri, tenutosi a Padova nel 1923 può definirsi inesatta, in quanto fu si dimora del Tommaseo ma non fu la prima.
Vista questa piccola inesattezza, per lo più sconosciuta a molti, ricordo che il Tommaseo si iscrisse alla facoltà di Legge soltanto per aderire al desiderio paterno che lo voleva avvocato a Sebenico e benché adatto alle arringhe forensi per cultura e capacità oratorie, egli non lo riteneva il suo destino che semmai era quello di scrivere, e scrivere per iscrivere; scrivere talvolta per vivere, come ebbe lui stesso più volte ad affermare. Grande latinista, per il suo carattere maturato lontano da casa e divenuto presto schietto e talvolta irriverente, non trascorrerà una esistenza nel benessere. Laureatosi a pieni voti nel gennaio 1822, nel giorno della sua proclamazione a Dottore, come era d'uso, cinta la corona d'alloro il neo dottore ingraziava il consesso dei suoi professori con queste parole, da lui stesso riferite: " In questo giorno solenne, da questo seggio d'onore, con queste insolite spoglie indosso, quale io mi sia, voi potete o signori, pensare da voi stessi. Deh venga il giorno che voi, se non con vanto, possiate almeno senza rammarico ricordare d'essermi stati maestri". Sicuramente già poco dotato di modestia ebbe però il merito di non far cadere invano l'augurio, tanto che dopo che la gloria ne cinse la fama, anche il consesso accademico ne riconobbe la sua gloria tanto da nominarlo Professore Emerito della Facoltà di Filosofia, ma questo accadde molti anni dopo il 1822.
Ottenuta la laurea Niccolò rientrerà a Sebenico in compagnia del padre, recatosi a Padova appositamente, e subito si troverà ad affrontare la sua prima prova in campo forense in una causa di famiglia, di cui egli stesso ne fa cenno nelle sue Memorie: " In questo tempo (1822) mi cadde opportuno di dimostrare a mio padre che i quattr'anni di legge non li avevo tutti né sbagliati né verseggiati. In una causa di famiglia, non mi contentando il lavoro dell'avvocato, vecchio ingegnoso ed ardente, rifeci io ogni cosa con buone prove legali, calzanti, senza declamazione, tranne uno dei periodi messi lì per mostrare che la declamazione non mi era impossibile. Il vecchio avvocato arrabbiò altri lodarono, mio padre ne fu lieto e superbo. Io non vedevo nulla, ma n'ero lieto per lui". Sempre sullo stesso argomento scriveva ad un amico " In una causa di famiglia riprovai la scrittura dell'avvocato e ne slanciai una io. L'avvocato ne adontò, fè schiamazzo; la mia carta fu letta, e si minaccia d'ora in poi di venirmi consultare. Questo è bene essere Dottori per forza! Ma io so il segreto di cessare ogni visita. A chi picchia, non apro, e la mia porta è il contrario di quella d'Averno". Dimostrando così all'amico le sue capacita forensi, ma anche che non era professione che lui voleva fare. Tornerà a Padova risiedendovi in via dell'Ospedale, in casa Lendinara. Visse lunghi anni alla ricerca di un lavoro stabile come insegnante partecipando a concorsi a Brescia, Rovereto, Milano, campando con quanto il padre gli riusciva mandare da Sebenico e scrivendo Preghiere eucaristiche e articoli per il Giornale di Treviso con cui però ruppe il rapporto in malo modo, trasferendosi poi a Milano. E qui la storia di Tommaseo non riguarda più prevalentemente Padova, evitandovi così un ulteriore tedio sulle vicissitudini minori patavine e di ciò che accadde in altre città, finisco solo ricordando che lo ritroveremo anche a Torino, esule e patriota insieme a Daniele Manin dopo la riconquista austriaca di Venezia, ma è appunto un altra storia.
Quasi di fronte a questa modesta casa, sulla facciata di un altro palazzo, esattamente al civico 22, su un'altra lapide, posta in modo quasi invisibile che se non si alzasse lo sguardo in cerca di volo di piccioni non si potrebbe leggere, comunque con difficoltà, cosa vi è scritto e che ricorda che in questa casa abitò e morì il Prof Giampaolo Vlacovich (Lissa 23.10.1822 - 11.01.1899) definito Anatomico Insigne e, aggiungiamo noi, che dal 1885 al 1891 fu rettore dell'ateneo patavino.
Via Cesarotti è un susseguirsi di case con lapidi che ricordano illustri personaggi, come quella posta sul civico 6 che ricorda che vi morì il Prof Vincenzo Pinali, clinico illustre che dal 1857 introdusse nello Studio padovano l'uso dello stetoscopio. Alla sua morte lasciò all'università di Padova la sua grande biblioteca specialistica che ha dato origine alla attuale Biblioteca medica dell'ateneo. Sempre sullo stesso Palazzo, un altra lapide che non mi è possibile leggere.
Non ultima quella dedicata al personaggio a cui è intitolata la via cioè al letterato padovano Melchiorre Cesarotti (1730 – 1808), sacerdote, insegnante di greco ed ebraico nell'università patavina ed appartenente ad una nobile famiglia padovana, noto soprattutto per la traduzione delle Poesie di Ossian antico poeta celtico. Anche di costui, noto bonapartista con la tonaca, si potrebbe scrivere molto ma il tempo corre come la noia del lettore.
Transitiamo davanti al palazzo con il numero civico 37, purtroppo senza poterci fermare. È un complesso di edifici rinascimentali, commissionati dal mecenate Alvise Corsaro, denominati all'Odeo e Loggia Cornaro, realizzati per attività ludiche e di spettacolo e dove il Ruzzante (Angelo Beolco) rappresentava le sue irriverenti commedie in padovano, ma si poteva ascoltare anche musica e poesia, luogo amato dalla nobiltà patavina e non solo. La Loggia risale addirittura al 1524 ed era adibita a rappresentazioni teatrali. L'Odeo invece, edificato nel 1530 aveva lo scopo di creare un luogo atto a conversazioni, dibattiti ma sopratutto spettacoli musicali. Avrei voluto poter ammirare gli stucchi tanto decantati dalle più pregevoli guide di architettura. L'edificio rimase ad uso residenziale fino al 1968, anno in cui la contessa Giulia Giusti del Giardino donò Loggia e Odeo al comune di Padova.
Flavio è sempre impegnato a scattare fotografie, ormai è un vero semi-professionista della foto, segue con attenzione un corso serale proprio di fotografia, sua passione nascosta. Transitiamo rapidamente davanti al civico 7 vediamo; questo edificio, ora utilizzato dai militari, fino al 1890 fu sede del Collegio Pratense, voluto nel 1394 dal cardinale Pileo da Prata e che fu destinato agli studenti poveri. Secondo alcune fonti storiche Andrea Palladio, in difficoltà economiche, iscrisse il figlio minore a questo collegio per permettergli di seguire gli studi di Lettere presso l'Università.
Ma altri importanti edifici corrono lunga questa via come nelle propaggini della piazza del Santo, ad esempio Palazzo Massimo - Asti che conserva affreschi seicenteschi.
Mentre il vicino Palazzo Bonmartini, rimane vivo nel ricordo degli amanti dei gialli per la clamorosa vicenda giudiziaria del secolo che seguì all'assassinio del conte Francesco Bonmartini, avvenuta comunque a Bologna e non a Padova. Ma proprio per le origini patavine del conte la città partecipò alle vicende con ansia, tanto che oggi qualcuno ancora lo indica come il palazzo del mistero.
In sintesi accadde che il giorno 2 settembre del 1902 viene rinvenuto il cadavere del Conte Francesco Bonmartini nel suo appartamento di via Mazzini 39 a Bologna, oggi Strada Maggiore.
Le forze dell'ordine avevano avuto la segnalazione dalla portinaia del palazzo e dall'amministratore, insospettiti da un crescente odore di putrefazione che proveniva dall'appartamento.
La polizia trova il corpo del conte steso a terra, ucciso da tredici coltellate. Lo stato di decomposizione fa pensare che la morte sia avvenuta il 28 agosto, cinque giorni prima.
Nell'appartamento vengono ritrovati un biglietto che fissava un "appuntamento" con il defunto il giorno 27 agosto, dei capelli lunghi da donna sui cuscini del letto sfatto, un paio di mutande da donna, vino e dei bicchieri sporchi ed inoltre l'appartamento pareva essere stato svaligiato. Subito la stampa nazionale si schiera contro il conte, definito libertino e manesco, che se invece di rincorrere le sottane avesse rincorso quella di sua moglie, probabilmente sarebbe ancora vivo. Il fatto diventa intricato con la comparsa di molte vicende, vere o create dalla stessa stampa. Il cognato (Tullio Murri) si autoaccusa affermando di aver ucciso il conte per autodifesa. Tullio si sarebbe recato dal Conte per chiedergli dei chiarimenti sull'improvvisa volontà di trasferirsi a Padova e sul perché continuasse a tradire la sorella Linda (Teodolina), nonostante le promesse di smettere. Colpo di scena giornalistico l'11 settembre, con i giornali cattolici che si schierano contro Tullio Murri e la sorella, accusandoli di essere degli amanti incestuosi, mentre quelli socialisti si schierano a favore di Tullio, indicando come possibile assassino il Dott. Carlo Secchi, amante di Linda.
Viene improvvisamente arrestata la domestica Rosina Bonetti per complicità con l'assassino e si costituisce spontaneamente Pio Naldi, medico ed amico di Tullio, che era con lui la sera del delitto. L'accusa sostiene che Pio Naldi, Tullio Murri e la complice Rosina Bonetti abbiano ucciso il conte, su richiesta della moglie Linda. Tullio, che era avvocato, non nega di aver compiuto il gesto ma sostiene di aver agito per autodifesa.
La strumentalizzazione mediatica di questo assassinio fu grande, tanto che furono pubblicati anche i documenti protetti dal segreto istruttorio.
Il giudice istruttore (fervente cattolico) tentò di accusare anche il Professor Augusto Murri per aver compiuto l'omicidio per vendicare i torti subiti dalla figlia, poi di complicità con il figlio Tullio.
Questo attivismo contro il suocero e l'astio del giudice istruttore nei confronti del professor Murri era antico, risalente a quando Augusto Murri aveva proposto di eliminare l'ora di religione dalla scuola pubblica. Si creano due grandi movimenti d'opinione: i "colpevolisti" e gli "innocentisti" che si danno battaglia, con il pericolo di condizionamento.
Nel febbraio 1904, la Procura di Bologna chiede alla Corte Suprema della Cassazione il trasferimento del processo in altra sede. Il processo inizia così a Torino il 21 febbraio 1905, con 104 udienze e 420 testimoni, oltre 80 ricostruzioni dell'azione sulla vittima effettuate sui cadaveri. Una immensa folla si accalca per assistere al processo, e tutti i giornali riempiono le pagine di articoli per interi mesi, addirittura viene anche stampata una cartolina postale per ricordare l'avvenimento e la poetessa Ada Negri dedica a Linda Murri la poesia Per l'omicidio:[...] Tu cerchi, nel sogno, due teste di bimbi - i tuoi bimbi - lontani: non v'è sangue sulla tua veste, non v'è sangue sulle tue mani. [...] Chi sa? T'assolveranno, o Madre. Chi sa? Ti daranno ai figliuoli. Fra un grumo di sangue ed un carcere oh, sarebbero troppo soli. Il processo si concluse nel 1905 quando la giuria sentenziò la colpevolezza di tutti gli imputati. Tullio Murri fu accusato di essere l'esecutore materiale del delitto in complicità con Pio Naldi (trent'anni ciascuno); Carlo Secchi e Linda Murri sono riconosciuti complici del delitto (dieci anni ciascuno); Rosa Sonetti viene riconosciuta colpevole di favoreggiamento per aver aiutato il Murri a liberarsi del coltello e delle prove (sette anni e sei mesi); Linda, la moglie del conte, malgrado le accuse non viene riconosciuta come il mandante.
Però mancano il mandante e il movente e tutto l'impianto accusatorio è sorretto solo dalle affermazioni di Tullio Murri: una lite, una lotta, tredici coltellate.
Comunque non rimasero in carcere a lungo, la Sonetti esce nel 1908, è minata da problemi psichici, muore quattro anni dopo. Nel 1910 Carlo Secchi muore in carcere; Tullio Murri esce nel 1919, in suo favore sono intervenuti in tanti, nomi autorevoli come Eleonora Duse, Matilde Serao, Gaetano Salvemini, Giosuè Carducci, ma soprattutto tanta gente comune. Con Tullio esce anche Naldi e si metterà a scrivere, ma la verità non verrà mai a galla. Nel 1974 Mauro Bolognini dirige un film sul caso Murri, si intitola Fatti di gente perbene, tra gli attori ci sono Giancarlo Giannini e Catherine Deneuve.
Con questo tragico racconto noir, che gli appassionati di questi argomenti potranno meglio approfondire sui libri nati sulla vicenda, ci avviciniamo alla basilica del Santo, nostra ultima meta della giornata.
Fine V parte.