La chiesa è posta in zona Borgo Po, dove si incontrano corso Moncalieri e corso Casale, ed è unita al centro città grazie al ponte Vittorio Emanuele I. Dalle vicinanze del tempio si diramano diverse vie, una delle quali porta alla Villa della Regina.
Osservando l'edificio, costruito nel freddo e puro stile neoclassico, si percepisce un impressionante effetto scenografico. Questa chiesa, eretta ad inizio del XIX secolo per commemorare il ritorno della dinastia dei Savoia a Torino e pagata con i soldi della municipalità torinese, costò uno sproposito. Solo per sorreggerla, visto che fu edificata su un terreno paludoso, ci vollero circa 1500 pali conficcati nel suolo. La sua costruzione fu lunga, infatti si cominciò a lavorare al tempio nel 1827, mentre il progetto risaliva al 1818, e i lavori terminarono nel 1831. La chiesa della Gran Madre rappresenta un punto nevralgico del presunto percorso magico ed esoterico che attraversa Torino, facendo della chiesa un luogo misterioso addirittura simbolo dell'occultismo. Fu costruita su disegno dell'architetto Federico Bonsignore (docente di architettura in università), per festeggiare il ritorno di Vittorio Emanuele I di Savoia il 20 maggio 1814, dopo l'esilio seguito alla sconfitta contro Napoleone. Sotto il grande timpano che sovrasta l'alto colonnato, spicca l'epigrafe " Ordo populusque Taurinus ob adventum regis" ossia " La città e il popolo di Torino per il ritorno del Re", mentre sul frontone un altorilievo rappresenta la Madonna col Bambino con le mani protese verso i Decurioni della Città di Torino che le rendono omaggio.
Disegnata sulla traccia del Pantheon di Roma, la sua ampia scalinata gli conferisce solennità che " fonde la fede con l'amor di Patria", motivo per il quale in seguito fu scelta per ospitare la cripta che raccoglie l'ossario dei caduti nella prima guerra mondiale, la cui inaugurazione avvenne il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini.
Per chi ci crede, la Gran Madre è considerata uno dei simboli della magia bianca, in particolare rappresenta uno dei vertici del triangolo del bene che unisce Torino a Parigi e Lione opposto a quello del male che tocca Torino Londra e San Francisco, anche se altre teorie affermano che il vertice torinese della magia bianca sia in piazza Castello. Ma certamente Torino vibra di magia che sia bianca (positiva) o che sia nera (negativa).
Ad esempio, una delle due statue poste ai piedi della scalinata della chiesa, entrambe opere dello scultore Carlo Chelli di Carrara, in particolare quella che rappresenta la Fede, indicherebbe con il suo sguardo, dove è custodito il sacro Graal; l'opera raffigura una donna vestita con una tunica romana, in posizione seduta che tiene un libro aperto con la mano e braccio destro e, nella sinistra eleva un calice, un angelo in piedi le sta sul fianco destro, seminudo, vestito con un leggero drappo, tiene con la mano destra un bastone appoggiato per terra,
Secondo un'altra leggenda la chiesa della Gran Madre custodirebbe segretamente il sacro Graal, cioè il calice dell'ultima cena di Gesù, ma è anche vero che secondo la tradizione esoterica il santo Graal potrebbe anche non essere sotto la chiesa ma trovarsi comunque a Torino.
Altri affermano che non sarebbe il calice dell'ultima cena bensì quello che raccolse il sangue di cristo dopo la crocifissione.
L'altra statua, chiamata della religione o della carità, è collocata alla destra di chi guarda la facciata e simboleggia una donna abbigliata con una lunga veste, mentre un mantello le scende dal capo fino a terra. I capelli sono ricci e ha una posa impassibile che pare scrutare il vuoto e sembra non badare al giovinetto, non un angelo visto che è privo di ali, che le sta inginocchiato accanto porgendole due Tavole di pietra sulle quali nulla è inciso.
Con la mano destra sorregge una grossa croce latina, che è anche l'unica croce presente a conferire la connotazione cristiana a tutto il tempio.
Prima di entrare, mi soffermo a fare una riflessione sul Graal, il calice sollevato da Cristo nell'ultima cena.
La parola Graal deriverebbe dal latino medioevale gradalis, che significherebbe piatto, e fu solo dopo la fine del 1100, quando il poeta Roberto de Boron scrisse il poema "Joseph d'Arimathie", che fu definito Santo. In parallelo iniziarono a circolare in Europa i racconti del ciclo arturiano, con i cavalieri di Re Artù sempre alla ricerca del Graal. Curioso è invece sapere che nel Museo della cattedrale di Genova sia conservato il Sacro Catino, che i crociati genovesi trovarono a Cesarea nel 1101. A lungo si credette che questa reliquia fosse il Graal, cioè il piatto dell'ultima cena. In seguito sorse invece la propensione a credere che l'oggetto tanto ricercato fosse un calice e non un piatto e che questo calice sia stato trovato e nascosto dai Templari in qualche parte d'Europa, alimentando fantasiose leggende e storie che lo vedono nascosto a Parigi o a Torre Canavese. Ma mentre gli storici cercano un filo conduttore a tutta questa storia e gli esoterici ci costruiscono le loro teorie, mi piace adottare l'idea che il sacro Graal si sia smaterializzato dopo l'ultima cena e che vaghi per il mondo come missionario di fede, sostando ogni tanto a Torino, dove già sono custodite altre due importanti reliquie come la Sindone e un pezzo della croce sulla quale fu sacrificato Cristo sul Golgota, e così, se il tre è il numero perfetto, siamo tutti contenti.
In cima alla scalinata, addossate alla facciata sotto l'enorme pronao e racchiuse in due nicchie, vi sono le statue di S.Carlo Borromeo e di S.Marco in atto di vergare il Vangelo su una tavola, con un remissivo Leone accucciato ai loro piedi.
Avevo già varcato ripetutamente la soglia della chiesa della Gran Madre di Dio per seguire alcune Messe officiate in occasioni speciali, sopratutto legate alle FF.AA, e sinceramente posso affermare che non mi abbia mai entusiasmato.
Sull'altare maggiore si trova la statua di Maria Madre di Dio mentre nelle nicchie ai lati vi sono alcune statue simboliche per la città. Infatti ritroviamo S. Giovanni Battista, patrono di Torino, anch'egli con una grossa croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, la Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. Incantevole invece è la cupola, che sembra voler risucchiare il visitatore verso l'alto, con quattro altorilievi sul tamburo raffiguranti la Vita della Vergine (Natività, Presentazione al Tempio, Sposalizio, Incoronazione). Al centro del pavimento, nell'aula circolare, un foro permette di vedere il sottostante Ossario dei Caduti della Grande Guerra (1915-'18) contenente le ossa di oltre 4.000 torinesi morti in combattimento.
Uscendo e volgendomi verso piazza Vittorio mi rendo conto della posizione strategica e del ruolo che questo tempio ha per i torinesi. Ai piedi della scalinata sorge una statua dedicata a Vittorio Emanuele I di Savoia, opera ottocentesca dello scultore genovese Giuseppe Gaggini, docente all'Accademia Albertina di Torino. La statua mostra il re con l'ermellino, una lancia in pugno e il mantello leggermente sollevato. La statua fu commissionata da Re Carlo Alberto per essere collocata a Genova nella piazza del Palazzo Ducale. Le vicissitudini delle guerea d'indipendenza, che si conclusero con l'abdicazione di re Carlo Alberto, fecero dimenticare la statua che fu collocata poi invece a Torino, davanti alla chiesa della Gran Madre solo nel 1885.
Scendendo lungo la scalinata, trovo appoggiato, quasi seduto sugli ultimi gradini il Professor Amycus Carro, uno dei peggiori mangiamorte della mia storia torinese ma anche della saga della Rowling. Fratello di Alecto Carrow, Amycus nella saga diviene professore di Arti Oscure nella scuola di Hogwarts per ordine di Voldemort. Costui è descritto come un uomo rozzo, prepotente e disgustoso. Mentre Amycus viene processato per la sua attività di Mangiamorte ed imprigionato ad Azkaban, nella mia storia torinese cercherà sempre di sfruttare le sua doppia personalità per ottenere importanti incarichi, comodi e di poca fatica. Costui è alto, viso ovale, occhi piccoli, naso grande a patata, bocca piccola con labbra sottili rosa chiaro, completamente pelato, sempre abbronzatissimo per i suoi innumerevoli soggiorni in luoghi di svago e turismo nei mari del Medio Oriente. Dal sottoscritto ebbe sempre tanta considerazione ed aiuto, ma risultò sempre fedele ai suoi protettori Mangiamorte e nonostante l'avessi più volte favorito, come da suo carattere egoista ed egocentrico mi voltò con facilità le spalle, tradendo la fiducia che in lui avevo riposto. È proprio vero che l'errore che più spesso facciamo è quello di vedere le persone come vogliamo noi e non come sono realmente.
Non è certamente un caso trovarlo ai piedi della chiesa della Gran Madre, proprio perché questo è un luogo carico di magia, non solo infatti gli esoterici vedono in questa chiesa il luogo in cui è nascosto il Graal ma anche perché durante la costruzione della chiesa furono trovate delle palafitte di legno che identificavano forse l'antica presenza di un tempio dedicato ad Iside, e in seguito a Proserpina, regina degli inferi e madre di Fetonte (Eridano).
In pochi passi raggiungo il ponte che offre un colpo d'occhio notevole, sia in prospettiva su piazza Vittorio, che verso la Gran Madre. Camminare sul ponte di pietra è come camminare su un pezzo di storia, mi pare di sentire parlare spagnolo e francese, ma intorno a me non vi sono francesi o spagnoli. È proprio impossibile non pensare alla folla di prigionieri spagnoli messi ai lavori forzati come schiavi da Napoleone, per costruire il ponte a cinque arcate. Infatti il ponte Vittorio Emanuele I, come ora è intitolato, inizialmente era dedicato a Napoleone che volle la sua realizzazione tra il 1810 e il 1813 e che sostituì il vecchio ponte in legno e muratura già danneggiato dalla piena del fiume del 3 novembre 1706 e temporaneamente riparato. Il ponte è lungo 150 metri e largo 13 ed ha oggi un parapetto in ghisa, che sostituì quello in pietra nel 1875, quando sul ponte venne realizzata la linea tranviaria. La costruzione del nuovo ponte comportò l'abbattimento di alcuni fabbricati e della chiesa dei Santi Marco e Leonardo, costruita nel 1333 e rifatta nel 1740. Anche il ponte ha del misterioso, infatti si racconta che celi un tesoro murato dagli stessi francesi che insieme alla prima pietra, avvenuta nel novembre 1810 alla presenza del principe Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte e allora Governatore del Piemonte, vi murarono un metro lineare in argento, simbolo della nuova unità di misura introdotta dai francesi, insieme a 88 pezzi d'oro tra monete e medaglie commemorative, volendo rappresentare la continuità nel tempo. Dopo la fine dell'occupazione francese fu proposto al re di abbattere il ponte, considerato dalla nobiltà come il simbolo della occupazione bonapartista, ma il re Vittorio Emanuele I si oppose all'idea e ancora oggi qualcuno afferma che camminare sul ponte di pietra è come calpestare i francesi bonapartisti che vi nascosero i loro simboli del potere.
Alzando lo sguardo posso ammirare da lontano la villa della Regina che si staglia in una posizione scenografica sulla collina dietro la chiesa della Gran Madre. È una delle residenze sabaude e fu chiamata della Regina quando il duca Vittorio Amedeo III, marito di Anna d'Orléans, divenuta proprietaria della villa, acquisì nel 1713 il titolo di re di Sicilia. La Villa fu costruita nel 1615 per volere del principe cardinale Maurizio di Savoia, figlio cadetto del duca Carlo Emanuele I. La Villa fu poi ceduta dal re Vittorio Emanuele II all'Istituto nazionale per le figlie dei militari. L'istituto fu soppresso nel 1975 e la villa divenne successivamente un museo. Sulla via che conduce alla Villa della Regina e che prende il suo nome è ricordato un terribile omicidio che ebbe luogo il 16 aprile 1952 alle ore 21.00 circa. Fu allora che dal numero civico 24 uscì Erio Codecà per portare a passeggio il cane. Il dirigente Fiat, colpito da un colpo di arma da fuoco, morirà appena giunto in ospedale. Le indagini apparvero subito difficili, furono seguite le piste anarchiche, quella di alcuni gruppi di facinorosi e violenti operai della Fiat e nonostante la taglia messa sulla testa di chi gli aveva sparato, l'identità dell'assassino non venne mai scoperta. Alcuni informatori, che vollero per tutto il tempo mantenere l'anonimato e che i giornali dell'epoca identificarono con gli pseudonimi di Ipsilon e Zeta, accusarono dell'omicidio tale Giuseppe Faletto, di professione pescivendolo a Porta Palazzo. Costui fece il partigiano durante la guerra di liberazione con lo pseudonimo di "comandante Briga" e si diceva che fosse un infallibile tiratore. I Carabinieri gli tesero una trappola e lo arrestarono ma lui si dichiarò fin da subito innocente in quanto affermò di essersi solo vantato di aver commesso quell'attentato per farsi bello agli occhi degli amici, ma di non averlo mai effettivamente compiuto. Nel corso del processo riuscì a dimostrare la sua innocenza, ma contemporaneamente saltò fuori una condanna a morte, pronunciata dal CLN di Torino a suo carico, per crimini commessi dal Faletto durante la Resistenza. Fu pertanto arrestato e uscì dal carcere nel 1973, mentre il caso dell'omicidio di Erio Codecà rimarrà insoluto.
Guardando l'acqua del Po scorrere sotto le arcate, la mia mente vola rapidamente ad un evento mariano accaduto in riva al fiume in quella che oggi chiamiamo via Casale e dove vi sorge la chiesa della madonna del Pilone. Nel tardo pomeriggio del 29 aprile 1644 in un punto della città, in riva al Po, c'era un pilone votivo dedicato alla Vergine. Margherita Mollar, in compagnia della figlia di 11 anni, si era recata dal mugnaio del mulino ad acqua posto vicino al pilone per affidargli un sacco di grano da macinare. La bambina stava giocando in riva al fiume quando scivolò in acqua, il tempo di udirne le grida e già la corrente del fiume la stava portando via, rendendo inutili i tentativi dei soccorritori di trarla in salvo. La madre Margherita impotente si mise ad invocare l'aiuto della Vergine, la cui immagine appariva sul pilone, quando una bianca signora, materializzatasi sulle acque, prese per mano la bambina portandola fino sulla riva del fiume. Il miracolo ebbe larga eco, tanto che per Volontà di Madama Cristina, l'anno successivo venne inaugurata la chiesa.
Un'altra storia che mi fa venire in mente la zona di corso Casale è la scoperta in Val San Martino, subito a ridosso della città alle prime pendici delle colline, del cadavere di un uomo ben vestito, con la gola e il ventre squarciati da un rasoio. Era l'aprile del 1911 quando i giornali riportavano crudamente l'efferata tragedia che vide la scomparsa di uno degli scrittori più amati ancora oggi: Emilio Salgari. Di lui tratto sicuramente poco, ma non posso esimermi di ricordarlo come uno degli scrittori dalla più fervida fantasia; basti pensare che lo scrittore, veronese di nascita, scrisse 82 romanzi e 120 racconti oltre ad articoli e scritti vari con il suo nome o con degli pseudonimi. I suoi fondamentali cicli narrativi sono quelli di Sandokan e quello del Corsaro nero, ma anche Cartagine in fiamme, Avventure tra i pellerossa, fino a scrivere l'avveniristico racconto "Le meraviglie del duemila", scritto nel 1907 e che per l'epoca poteva essere considerato come fantascienza. Ben presto si stabilì la verità e si scoprì che non fu ucciso ma che si suicidò; il giornale La Stampa scriveva: " Il cavaliere Emilio Salgari s'è ucciso a colpi di rasoio nei pressi di strada del Lauro, in Valle San Martino, in un crepaccio che si apriva nel bosco come una nicchia funeraria" fino a giustificarne l'orrendo gesto "..il dolore di aver perduto la compagna di vita: qualche giorno fa la moglie dello sciagurato Salgari era stata rinchiusa per demenza in manicomio". Furono ritrovate 13 lettere, in alcune delle quali lo scrittore accusava gli editori di averlo sfruttato e di averlo ridotto in miseria, " A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi miseria, e anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dato, pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna". Affida i propri figli e la moglie ai giornalisti "vinto dai dispiacer d'ogni sorta, ridotto alla miseria malgrado la grande mole di lavoro, colla moglie pazza all'ospedale, alla quale non posso pagare la pensione, mi sopprimo. Conto milioni d'ammiratori in ogni parte d'Europa e anche nell'America. Li prego, signori direttori, di aprire una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli e poter passare la pensione a mia moglie finché rimarrà in ospedale". Nessun grande scrittore gli rivolse uno scritto di elogio e commiato, quasi che questo minuto romanziere fosse stato un fantasma. Veniva soprannominato "Capitano" perché amante del mare, voleva in gioventù fare l'ufficiale di Marina, ma il suo unico viaggio in mare lo fece sull'Adriatico e forse come mozzo nel 1880. È entusiasmante pensare come la mente fervida di Salgari avesse raccontato con dovizia di particolari ambienti come le giungle, le praterie, i mari e le isole dei Caraibi senza averle mai viste, ma con la capacità di potertele raccontare così bene che da bambino la mia fantasia ed immaginazione viaggiava sui suoi racconti. Trasferitosi a Torino, salvo una parentesi biennale a Genova e un viaggio a Venezia, non si mosse mai dalla città della Mole. Si sposò con Ida, che chiamerà Aida in omaggio al musicista Giuseppe Verdi, che lo renderà padre di quattro figli. A Torino abitò in via Morosini 5, poi in via Soperga (oggi via Martiri della Liberta), in piazza San Martino (oggi XVIII Dicembre) poi in corso Casale 280 e infine al civico 205 della stessa strada. I suoi romanzi li ho sempre trovati colmi d'azione, d'esaltazione di sentimenti come amore, lealtà, onore, coraggio e onestà che è stata da sempre la sua caratteristica. Anche nella lettera indirizzata ai figli le parole d'amore erano sincere, oltre a indicare dove avrebbe trovato la morte "Vado a morire nella valle di San Martino, presso il luogo ove andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a raccogliere i fiori", ma coglie altresì l'occasione di raccomandarsi ai suoi ragazzi con queste parole "Mantenetevi buoni ed onesti e pensate, appena potete, ad aiutare vostra madre. Vi bacio tutti con il cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre".
Non solo Salgari decise di uccidersi come uno dei suoi personaggi da romanzo, con il suicidio rituale dei samurai, il seppuku, ma anche i figli non ebbero una sorte benevola; infatti Romero si uccise gettandosi con gli occhi bendati dalla sua casa sita nelle vicinanze di quella paterna, non prima però di aver sparato alla moglie; Nadir morì investita da un tram; Fatima finì i suoi giorni in sanatorio e Omar, rimasto vedovo dopo un anno di matrimonio e risposatosi altre due volte, nel 1963 si ammazzerà gettandosi dal secondo piano della sua abitazione. È proprio il caso di dire che esisteva una "maledizione dei Salgari".
Dal ponte si vedono bene i Murazzi, luogo di cui un famoso astrologo e sensitivo torinese, Mario Segato, racconta quanto per lui fosse difficile passarvi vicino. In questo luogo avvenivano frequentemente fucilazioni e ancor prima lapidazioni ed i corpi dei disgraziati, che ancor oggi si vuol sentire urlare dal dolore e dallo strazio, nelle nottate nebbiose venivano buttati sanguinanti nel Po, tanto da tingervi le acque di rosso. Se è vero che la storia di Torino passa attraverso il Po, i Murazzi ne sono sicuramente il porto. Infatti "ij Murass "in lingua piemontese sono gli approdi e le rimesse delle barche che un tempo navigavano sul Po e qui in prossimità del centro storico di Torino vi trovavano approdo e riparo.
Il nome deriva dagli imponenti argini (muri) costruiti nel corso nel XIX secolo per salvaguardare il centro cittadino dalle piene del fiume.
Furono costruiti in periodi diversi e il primo tratto dei "Muri" (lungo corso Cairoli e lungo Po Diaz) fu realizzato tra il 1833 e il 1835, mentre il tratto successivo venne realizzato tra il 1872 e il 1877, in concomitanza con l'abbattimento del fatiscente Borgo del Moschino. Questo Borgo entrò per lungo tempo nelle cronache, infatti nel 1866 l'Italia, conclusa la terza guerra di indipendenza, dovette affrontare una epidemia di colera che si manifestò in maniera particolarmente grave a Napoli, Genova e a Torino. In città una delle prime zone ad essere colpite dall'epidemia fu proprio il cosiddetto Borgo del Moschino. All'epoca le cause dell'epidemia venivano generalmente attribuite alla mancanza di circolazione dell'aria, alla presenza di umidità e alla mancanza di luce solare oltre che alla mancanza di igiene. Il Borgo era posto vicino agli scarichi fognari a cielo aperto in Po e la tipologia e qualità di costruzione edilizia delle case era pessima, tanto che il borgo versava in una situazione decadente e degradata con vicoli stretti, mal illuminati e scarsamente aerati. Fu allora che fu deciso l'abbattimento di molte case, prolungando ed allargando Corso San Maurizio fino al Po, allo scopo di migliorare le condizioni igieniche, permettendo di aerare meglio la zona e consentire al sole di illuminare e scaldare le restanti case non demolite.
Fu inoltre stabilita la costruzione di un canale coperto per portare a valle della confluenza della Dora le "materie immonde" che sboccavano nel Po in vicinanza del borgo Moschino. Fino agli anni cinquanta del XX secolo nei locali ricavati sotto le imponenti arcate di questi argini trovavano rimessaggio le barche da pesca e quelle per il trasporto merci lungo il corso navigabile del fiume. Successivamente, sia per l'inquinamento fluviale che per l'abbandono di un lavoro scarsamente redditizio, si ha il progressivo abbandono della zona che rimase a lungo trascurata e dequalificata. Ultimamente ha ritrovato un ruolo rilevante nella movida torinese con l'apertura di locali, in grado di attirare nella zona una buona parte della gioventù cittadina anche nelle ore notturne. I tratti dei Murazzi a nord e a sud del ponte Vittorio Emanuele I sono stati ultimamente intitolati rispettivamente ai cantautori torinesi Fred Buscaglione e Gipo Farassino. Per qualche tempo, e forse ancora oggi, si sono svolte in alcuni locali ricavati nelle antiche rimesse delle barche, delle serate a tema molto frequentate d'estate da giovani Mangiamorte di ambigua fama e costumi. A ricordare l'antica funzione di via di trasporto del Po, c'é rimasto il nome della vecchia trattoria "Il Porto di Savona", che si affaccia su Piazza Vittorio, un tempo vero ritrovo per i battellieri e i pescatori del fiume più lungo e famoso d'Italia.
La chiesa della Gran Madre con i vicini Murazzi sono una scenografia particolarmente apprezzata in molti film come "Ogni lasciato è perso", che vede interprete e regista Piero Chiambretti, nel quale si racconta la storia, anche con intrecci onirici, di un conduttore televisivo che viene sedotto ed abbandonato. Nel film, del 2000, si vedono il Po e i Murazzi, la Mole Antonelliana, il parco del Valentino, oltre ai ristoranti torinesi di cui è titolare lo stesso Chiambretti. Anche il film "ll gatto a nove code", un film giallo del 1971 diretto da Dario Argento, vede molte scene girate a Torino vicino alla chiesa della Gran Madre di Dio. Un film che sento un po' alessandrino perché lo scenografo fu Carlo Leva, originario di Bergamasco. Per non parlare del film "Un colpo all'italiana (The Italian Job)" un film del 1969 diretto da Peter Collinson. Il Film è la storia di un gruppo di dandy - ladri inglesi che arrivano a Torino per realizzare una rapina ai danni della FIAT. Il gruppo, utilizzando una tecnologia raffinata, sabota il sofisticato sistema computerizzato di controllo dei semafori cittadini, paralizzando il traffico torinese per compiere il furto. Per seminare la polizia e fuggire vengono utilizzate tre Mini Cooper. Nonostante possa apparire un colpo basso da parte di una industria automobilistica inglese concorrente della FIAT, fu lo stesso Avvocato Agnelli a favorire alcune riprese sulla pista panoramica posta in cima allo stabilimento del Lingotto. La città è ripresa da diverse prospettive e tra le varie location come Piazza Castello, via Po, la galleria subalpina, la Mole e tante altre vie e palazzi cittadini, non poteva mancare la scenografica piazza Vittorio e la chiesa della Gran Madre i Dio. Voglio solo citare ancora i film "Addio giovinezza", diretto nel 1940 da Ferdinando Maria Poggioli ed ambientata nella Torino del 1910, oppure "Anche se l'amore non si vede", un film del 2011 diretto e interpretato da Salvatore Ficarra e Valentino Picone, con riprese della Gran Made di Dio, o come "Nessuna qualità agli eroi", un film del 2007, diretto da Paolo Franchi, quasi tutto ambientato tra piazza Vittorio Veneto e l'immancabile chiesa della Gran Madre.
Fine XXVII parte.