Blog di Dante Paolo Ferraris

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Luci ed ombre a Torino (XXVIII parte)

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Madam RosmertaAppoggiato ai muraglioni dei Murazzi, con le spalle volte alla gran Madre, contemplo piazza Vittorio, come la chiamano semplicemente i torinesi.
Di fronte a me si trova un antico bar rimodernato che fa proprio angolo con lungo Po Diaz. Ero solito frequentare questo piccolo bar, dotato di un grande dehors proprio sulla piazza, in compagnia di uno dei peggiori mangiamorte torinesi, nel periodo in cui mi trovavo con maggiore assiduità in città. Fu proprio il peggiore di questi a farmi conoscere questo locale, in cui ci soffermavano appena possibile a bere un aperitivo o a fare colazione.
Poco distante da piazza Vittorio, in direzione del parco del Valentino, ove ora esiste via della Rocca, un tempo vi era eretta una antichissima roccaforte posta a guardia della via fluviale che nel 950 aveva ospitato Lotario, figlio di Ugo di Provenza. Vicina alla rocca vi era il cimitero di "San Lazzaro o della Rocca", ora scomparso, il cimitero era posizionato nei pressi del Po, in quello che oggi è Corso Cairoli, fra le odierne Via Mazzini e Via dei Mille, qui inizia una delle storie e leggende più avvincenti della Torino del settecento/ottocento.
Si racconta che la principessa russa Barbara Tatichef Beloselkij, moglie dell'Ambasciatore russo presso la corte sabauda, Alesksandr Beloselkij, fosse una donna ricca e bellissima. Barbara nacque a mosca il 27 marzo 1764 e morì per cause sconosciute a Torino a soli 28 anni, il 23 marzo 1792, dopo aver messo al mondo tre figlie e subìto un aborto, il suo corpo venne inumato proprio in quel cimitero ora scomparso. L'inconsolabile marito nel 1794 fece scolpire dal famoso artista Innocenzo Spinazzi una statua per la tomba, raffigurante una "dama velata" a rappresentazione del lutto.
Il monumento, definito "semplice e pietoso", venne realizzato a Firenze e da subito risultò essere tanto bello quanto inquietante: una figura di donna ricoperta completamente da un velo che lascia soltanto intravedere i lineamenti del suo viso e del suo corpo, rendendola evanescente quasi da fargli assumere un'aria a dir poco sinistra. La "Velata", così fu denominata la statua della principessa, fu subito oggetto di storie paranormali e alcuni dissero già subito dopo la sepoltura di aver udito dei lamenti provenire dall'interno delle mura del camposanto.
Nel 1862 la statua della dama venne trasferita al cimitero di san Pietro in Vincoli, presso la salesiana area di Valdocco. Sul monumento era incisa una frase in francese, ora scomparsa, che così recitava: "Oh, sentimento, sentimento! Dolce vita dell'anima. Quale cuore non ha mai colpito? Qual'è lo sfortunato mortale cui non hai mai offerto il dolce piacer di versar lacrime, e qual'è l'anima crudele che, dinanzi a questo monumento semplice e pietoso, non si raccolga con malinconia e non condoni generosamente i difetti allo sposo che lo ha innalzato?". Si narra che il fantasma di Barbara, chiamata "Varvara" dagli spiritisti, compaia spesso a passeggio, di notte, per le vie di Torino, intenta ad andare a trovare il bel Tenente di artiglieria Enrico Biandrà che la vedeva apparire improvvisamente nella sua dimora. Il Tenente, alla vista del fantasma di Barbara, così bella e affascinante, se ne innamorò. Altre apparizioni si hanno al cimitero di San Pietro in Vincoli, ora abbandonato.
Mi piace pensare alla bella principessa che passeggia lungo i murazzi intenta ad ammirare da lontano la Basilica di Superga che dall'alto della collina torinese domina la città, oppure vederla transitare in carrozza in via Po, diretta in piazza castello, attorniata da signore a passeggio con l'ombrellino bianco come nei più bei ritratti ed incisioni dell'epoca.
Un storia avvincente che i torinesi conoscono e che altri hanno scoperto solo grazie al film "La donna velata", diretto dal regista Edoardo Margheriti ed interpretato da Enrico Lo Verso. Le cronache raccontano che stranamente, durante le riprese del film, vi siano stati degli strani contrattempi, come luci costantemente fulminate e macchinari che si guastavano spesso. Ovviamente si è subito pensato ai dispetti di Barbara. Piccole fantasiose suggestioni di questa evanescente principessa russa, raminga lungo le sponde della Dora nelle nebbiose notti torinesi, lontano dalla rumorosa e festosa movida estiva dei murazzi.
La Municipalità dopo il 1817 decise l'ampliamento della città verso il fiume e allo stesso tempo anche la realizzazione di una ampia piazza in asse con via Po, su progetto dell'architetto Giuseppe Frizzi, originariamente intitolata a Vittorio Emanuele I. L'attuale nome le fu attribuito nel 1919 dopo la prima guerra mondiale quando, dovendo scegliere una piazza da dedicare alla vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto, si scelse questa poiché popolarmente già nota come Piazza Vittorio.
Anticamente la piazza era alberata e declinava verso il fiume, dove sorgeva l'antica "porta di Po", poi abbattuta sotto il dominio francese.
Questa piazza, anche dopo l'ampliamento della città verso il Po, ospitò per lungo tempo anche la funzione di "piazza d'armi", luogo prescelto sia per la sua vastità che per il dislivello del terreno che favoriva l'effetto scenico in occasione delle parate militari. La piazza infatti non è in piano, ma tra il lato che immette in via Po e quello sul fiume ci sono ben 7,19 metri di differenza di livello. L'architetto Giuseppe Frizzi, che progettò gli edifici porticati prospicienti sui due lati maggiori della piazza, li disegnò in modo tale da nascondere la pendenza. Solo con occhio attento e un po' di intuizione si può notare questa differenza, sopratutto passeggiando sotto i portici in direzione del Po si potrà notare che quelli verso il fondo sono più alti rispetto a quelli che si trovano al principio della piazza.
Una serie di lapidi poste sulle case ricorda i grandi personaggi che vi abitarono, come sulle arcate della casa vicino al civico 12, dove una lapide serba memoria dell'astronomo Giovanni Plana (1781-1864), che qui visse e dove morì nel 1864. La lapide fu posta nel centenario della sua morte, per celebrare l'astronomo e matematico autore della teoria del movimento della luna. Di fronte, quasi all'angolo di piazza Vittorio con corso Cadorna, alzando il naso tra due finestre sopra il porticato al numero 23, una lapide ormai quasi illeggibile ci ricorda il soggiorno del poeta romantico-risorgimentale Giovanni Prati (1814-1884), che vi alloggiò dal 1843. Giovanni Prati non ebbe vita facile nella capitale sabauda, per i continui contrasti con il modesto olimpo letterario torinese, tanto che si allontanò da Torino ben presto. La lapide a suo ricordo fu posata dalla municipalità torinese nel 1899. Invece posta al civico numero 12 morì il 18 marzo 1857 Pier Alessandro Paravia, immigrato dalle Venezie che insegnò letteratura italiana all'Università e che lasciò diversi scritti su vita, usi e costumi di Torino all'epoca di re Carlo Alberto.
La piazza fu ampiamente utilizzata anche durante il periodo fascista per le adunate militari e di massa organizzate durante le visite ufficiali del Duce. La più imponente fu durante la visita del 1939, dove un grande palco, appositamente costruito proprio in testa al ponte, addirittura oscurò la vista della chiesa della Gran Madre. La piazza fu inoltre punto di raccolta delle truppe anglo-americane durante la seconda guerra mondiale e anche luogo di ammassamento per la sfilata seguita alla Liberazione di Torino da parte dei partigiani.
Storicamente dal 1945 la piazza è anche il luogo di partenza dei cortei dei lavoratori per la festività del Primo Maggio, ospitò per molti anni la festa di carnevale mentre oggi è luogo di importanti manifestazioni e ricorrenze come i fuochi d'artificio dedicati a San Giovanni Battista.
Purtroppo molte lapidi poste intorno a queste piazza invece ricordano dei tragici eventi legati alla liberazione di Torino dal dominio nazifascista come quella che ricorda Barelli Pasquale posta al civico 20 di Piazza Vittorio Veneto. Questo meccanico, nato il 10 aprile 1915, venne assassinato dai fascisti davanti a questo stabile il 18 febbraio 1945. L'Istruttoria sulla morte del partigiano fu fatta dai Vigili urbani che scrivono "In detto stabile esiste tutt'ora il Caffè Gaj, il cui titolare ha precisato il fatto, poiché il Barelli, dopo essere stato arrestato da una pattuglia della Gnr in divisa, è stato accompagnato in detto esercizio, dove, dopo sommario interrogatorio, è stato fatto uscire sulla piazza e prima colpito col calcio della rivoltella e poscia con colpi di rivoltella". Sempre in piazza all'angolo di via Plana una lapide ricorda Pinardi Francesco, nato il 14 maggio 1923, laureato in legge, militò nella brigate cittadine di Giustizia e Libertà con il nome di Battaglia "Mimmo". Prelevato dalle Brigate nere il 14 febbraio 1945 e trucidato in piazza Vittorio il giorno stesso a soli 22 anni. All'angolo di piazza Vittorio con lungo Po Diaz, una lapide ricorda Sussetto Augusto e Sussetto Clemenentina, il primo muratore, nato nel settembre del 1921, residente a Brandizzo, partigiano della divisione cittadina GL. La sorella Clementina, invece era nata il 26 marzo 1909 anch'essa a Chivasso, operaia, residente a Torino, partigiana con il nome di battaglia Leonessa nella 21a brigata Sap. Costei venne arrestata dalle Brigate Nere l'8 febbraio 1945 e portata alla casa Littoria dove venne torturata prima di essere fucilata con il fratello il 12 febbraio 1945, alle ore 23.00 circa, lungo la discesa dei Murazzi, all'altezza dei portici di piazza Vittorio. Dall'altro lato della piazza, sotto i portici, di fronte ai bar della movida torinese, una lapide ricorda Roero Maggiorino, caduto il 28 agosto 1944, abitante in piazza Vittorio 21 e di professione operaio.
In via Vanichiglia troviamo invece la lapide dedicata all'avvocato Renato Wuilermin, nato l'8 febbraio 1896 a Milano, politico, sindacalista di area cattolica, licenziato dalla Società Idroelettrica Piemonte, dove era capo ufficio legale, perché non volle aderire al partito fascista. Fu inviato dapprima al confino, poi arrestato ed incarcerato nel carcere di Savona e fucilato dai fascisti, insieme ad altri sei compagni di sventura, sul colle di Cadibona il 27 dicembre 1943. A due passi da qui, sempre in via Vachiglia, c'è palazzo Birago di Vische, costruito nell'ultimo quarto del XIX secolo. Oggi purtroppo ha perso gli antichi fasti che il suo antico proprietario, il marchese Carlo Emanuele Birago di Vische, volle dargli. A testimonianza della magnificenza passata rimane il cortile d'onore e semicolonne e grandi lesene dell'elegante palazzo neoclassico. Oggi ospita l'Associassion Piemontèisa, fondata nel 1975 con lo scopo di conservare e promuovere la conoscenza delle tradizioni popolari piemontesi in tutto il mondo.
Lasciata la sponda del Po, uno sguardo ancora alla collina torinese, dove in lontananza si vede la Basilica di Superga, un imponente edificio religioso nato per soddisfare un voto che Vittorio Amedeo II fece davanti alla statua della Madonna delle Grazie. Torino, come tutto il ducato sabaudo, nel 1706 era sotto l'assedio delle truppe francesi di Luigi XIV, che nella sua grande ambizione voleva trasformare il Piemonte in una provincia francese. I Piemontesi e i loro alleati austriaci fecero una ferrea resistenza tanto da sconfiggere i francesi che erano molto più numerosi e meglio armati. La tradizione vuole che il 2 settembre del 1706 il Duca, con il cugino viennese Principe Eugenio di Savoia, salì sul colle di Superga per esaminare da quell'altura le posizioni del nemico e stabilire le azioni da porre in campo per rompere l'assedio della città. Sulla collina vi era una chiesetta che fungeva da parrocchia ed il duca, davanti alla statua della Madonna posta al suo interno, fece un voto: se avesse vinto sui Francesi rompendo l'assedio alla città, avrebbe fatto innalzare in quel luogo una grande chiesa in suo onore. Scesi dal colle i due principi misero in esecuzione il loro piano di battaglia. La mattina del 7 settembre alle ore 10 misero in atto quanto studiato sul colle di Superga; i combattimenti furono terribili e massacranti, ma l'esercito piemontese ne uscì vittorioso. Torino e il Piemonte erano liberi. Da lì a poco il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, assumerà la corona di Re di Sicilia e poi di Sardegna. Nel 1717, lo stesso Vittorio Amedeo II poneva la prima pietra per l'edificazione del Tempio votivo in onore della «Madre del Salvatore - Salvatrice di Torino». La storia della sua edificazione ve la risparmio, ricordo solo che la Basilica di Superga ospita la cripta reale con tombe dei Savoia. Questa si trova sotto il pavimento della basilica e la sua pianta è a forma di croce latina. Realizzata in stile barocco, è riccamente decorata da stucchi e sculture, con molti marmi pregiati come quelli verdi di Susa, l'alabastro di Busca e le cornici in marmo di Valdieri. Abbondano simboli e riferimenti magici, alchemici ed esoterici, che dimostrano il legame dei Savoia con il mondo del sovrannaturale. Nella cosiddetta Sala dei Re, è presente al centro il sarcofago più grande, quello di Carlo Alberto di Savoia. La tradizione voleva che alla morte di ogni sovrano, egli venisse collocato proprio al centro della cripta per poi, alla morte del sovrano successivo, essere spostato nei loculi laterali per lasciargli il posto centrale. Re Carlo Alberto, però, è ancora collocato in posizione centrale, in quanto i suoi successori, divenuti re d'Italia, vennero sepolti nel Pantheon di Roma.
Attorno al sarcofago di Carlo Alberto sono disposte, nelle nicchie alle pareti, quattro statue in marmo, raffiguranti la Fede che come quella posta davanti alla chiesa della Gran Madre di Dio tiene fra le mani un calice, la Carità, la Speranza ed il Genio delle Belle Arti, che tiene in mano un triangolo con il vertice rivolto verso il basso, appoggiato sopra una sfera. Simbolicamente, per gli esoterici, il triangolo con il vertice rivolto verso il basso è simbolo della materia, appoggiato su un globo o sfera che rappresenta simbolicamente lo spirito. Nella stessa sala sono presenti i loculi con i resti di Vittorio Emanuele I, Vittorio Amedeo III, Maria Teresa d'Asburgo-Este e Maria Antonietta di Borbone-Spagna, ed i cenotafi di Carlo Emanuele IV, sepolto a Roma nella chiesa di sant'Andrea al Quirinale e di Carlo Felice (sepolto ad Altacomba).
Nella seconda sala si trova il monumento funebre a Carlo Emanuele III, e da qui una porta conduce alla Sala delle Regine, che ospita, fra gli altri, i sepolcri di Maria Teresa di Toscana, di Maria Adelaide e di Maria Vittoria dal Pozzo.
Dalla parte opposta, in quella che è la quarta sala, è presente il monumento dedicato al primo re di Sardegna, Vittorio Amedeo II, su cui siedono le personificazioni della Fecondità con in mano la cornucopia, e della Giustizia, che stringe il Fascio littorio; da qui si può accedere alla Sala degli Infanti, così chiamata perché ospita i fanciulli, i principi e le principesse reali che non regnarono mai.
Un cenotafio ricorda Mafalda di Savoia, morta nel campo di concentramento di Buchenwald nel 1944 e sepolta nel cimitero del castello degli Assia a Kronberg im Taunus. Ma la mia attenzione, durante la mia visita, ricordo che fu rivolta al mistero del cuore del principe Eugenio di Savoia. Occorre sapere che nelle maggiori corti europee era usanza di asportare il cuore prima di dare sepoltura ad un re, un principe o a personaggi illustri. Ciò aveva un triplice significato, la prima era la certezza che lo scomparso fosse inequivocabilmente morto, infatti era molto diffusa la paura di essere sepolti vivi; la seconda che il cuore, ossia la parte più sacra del corpo fosse considerata una reliquia e terzo soddisfare anche le esigenze di chiese che volevano onorarsi di ospitare tale reliquia.
Il principe Eugenio di Savoia morì a Vienna nel 1736, dopo tante battaglie combattute, senza eredi diretti né testamento. Il corpo del Principe fu sepolto nella cripta sotterranea della Kreuzkapelle nel Duomo di Santo Stefano a Vienna accanto a due suoi congiunti, mentre il cuore, secondo alcuni, venne portato a Superga, mentre per i personaggi più illustri dell'impero, legati alla casata degli Asburgo, il cuore fu poi deposto in piccole teche nella cripta della Chiesa degli Agostiniani. Di certo ciò non avvenne perché Carlo VI non acconsentì di deporre il cuore nella cripta degli Asburgo. Carlo Emanuele III non fu presente al funerale a Vienna, ma fu rappresentato dal suo Ambasciatore e dall'intero corpo diplomatico, e quindi, come affermano gli storici, fu probabilmente l'Ambasciatore stesso a portare la teca d'argento con il cuore di Eugenio di Savoia a Torino.
Molte sono le narrazioni che vogliono che il cuore, giunto a Torino, sia stato deposto, con tutti gli onori per aver salvato Torino dai Francesi nel 1706, prima in Duomo e poi nella ultimata Basilica di Superga, e molti libri di storia così ancora affermano. Ma a Superga non c'è più e non ci sono testimonianze o documenti che ne testimonino la sepoltura. Di certo la reliquia non si trova nella cappella degli Agostiniani con i cuori degli Asburgo. Durante gli scavi della metropolitana viennese, nel 1974, si riapri la cripta sotterranea del duomo di Santo Stefano per accertarsi che non vi fossero stati causati danni e vi furono rinvenute tre bare e appoggiato su una di queste, quella di Eugenio di Savoia, si trovò un cofanetto d'argento con la scritta: "Cor Serenissimi Eugenii Francisci Sabaudiae Principis Qui Mortuus est Vienae" 1736. Il Cardinale Konig, che sovrintese alle operazioni, vietò l'apertura del cofanetto ed allora sorse il dubbio se veramente il cuore di Eugenio avesse raggiunto la basilica di Superga, nello stesso luogo in cui assistette Vittorio Amedeo II nel porgere voto alla Madonna, su quel colle da cui osservarono il nemico francese e studiando le azioni per la liberazione di Torino. Alcuni sostengono che il cuore sia stato riportato a Vienna nel 1799 e deposto, come era logico, sulla cassa di Eugenio nella cappella sotterranea del Duomo di Vienna, per salvarlo dalla furia degli invasori giacobini, che avrebbero sicuramente profanato la Basilica. Altri storici invece sostengono che il cuore del principe non è mai stato portato via dall'Austria e quindi non è mai stato nella cripta di Superga.
Ma anche Superga ha i suoi chiaroscuri, come la storia di Maria Adele d'Asburgo-Lorena e del suo fantasma. Adele, come era familiarmente chiamata, nacque a Milano il 3 giugno 1822 ed andò in sposa al cugino Vittorio Emanuele II, matrimonio che si celebrò nella palazzina di caccia di Stupinigi. Diede al Re ben otto figli e morì di una gastroenterite improvvisa e violenta nel gennaio 1855, non potendo così diventare la prima regina d'Italia. Le esequie furono celebrate nella chiesa di San Lorenzo e poi il corpo tumulato nella basilica di Superga. Adele era ben voluta da tutti i torinesi, tanto che nella chiesa della Consolata lo scultore Vincenzo Vela la ritrarrà in un gruppo scultoreo con la suocera Maria Teresa d'Asburgo-Toscana. Ancora oggi si crede che nelle nottate di luna piena Adele esca dalla tomba, posta sulla collina di Superga, e che il suo fantasma si libri in aria, per rivedere la sua città e per proteggerla.
Sul piazzale di Superga si erge una colonna, per lo più dimenticata da tutti, turisti compresi, che invece ci racconta un pezzo di storia di Torino. Infatti si tratta di una colonna corinzia di granito con capitello in bronzo sulla quale si trova un'aquila trafitta da una freccia. Il monumento è dedicato alla memoria del Re Umberto I di Savoia, ucciso il 29 luglio 1900 a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, ed è stata voluta da Vittorio Emanuele III nel 1902. Alla base della colonna la statua di un guerriero celtico simboleggia la città di Torino e punta una mano verso il cielo e la spada verso uno scudo di Savoia. Sulle facce del basamento si legge ISCHIA- BUSCA-NAPOLI, in riferimento alle pubbliche calamità e sventure a cui il Re porto personale soccorso e conforto; cioè al terremoto che il 28 luglio 1883 che sconvolse Casamicciola e alle visite a Busca (CN), il 26 agosto 1884, e a Napoli dall'8 al 12 settembre successivi, per portare conforto e aiuti alle popolazioni colpite dall'epidemia di colera.
Prima di recarmi a bere un caffè e gustare qualche pasticcino al caffè Elena, posto sempre sotto i portici di Piazza Vittorio, ricordo ancora, come poco distante da qui, proprio su lungo Po Diaz e corso Cairoli, sul muro di cinta di una villa,oggi sede di una Banca, un'altra lapide ricorda il partigiano Stroppiana Paolo, professione fabbro ivi caduto il 1 agosto 1944 per mano nazi-fascista.
Sono sempre attratto dai tipici "lampioni impero con braccio a cornucopia" che illuminano la piazza. Questi riescono ad offrire un immagine magica della città quando la piazza si svuota, cosa che avviene solo alla mattina presto, quando non è più il centro della movida torinese. Infatti molti sono i locali meta di giovani che fin dall'orario dell'aperitivo la invadono pacificamente. La piazza è notoriamente uno dei luoghi di ritrovo e aggregazione giovanile, proprio perché in parte pedonalizzata e liberata dalle auto in sosta.
Trovo sotto i portici Madama Rosmerta, la padrona del Pub "I Tre Manici di Scopa" di Hogsmeade. La Rowling la descrive come una donna avvenente, piacevole e buona d'animo, purtroppo anch'essa caduta vittima dei Mangiamorte poiché influenzata dalla maledizione Imperius. E se Madame Rosmerta della Rowling è una donna ben tornita dal viso grazioso, capelli biondi e occhi verdi, tanto che Ron Weasley arrossisce un po' quando le si avvicina, nella mia Hogwarts torinese, Madama Rosmerta è una nobildonna torinese, che ricoprii importanti incarichi nella Hogwarts torinese, già prima del mio arrivo in città. Anche lei ha folti capelli biondi, viso tondo e gioioso, corporatura massiccia ma ben equilibrata, parlata fluente e con una cadenza dialettale molto presente, anche se il dialetto non è quello piemontese, Donna dal carattere determinato, inciso, ma dolce, nonostante la sua gran voce, potesse impaurire chi non la conoscesse. Anch'essa dovette cedere alle lusinghe di Mangiamorte, ma a differenza della Madame Rosmerta della Rowling non tenterà di avvelenare nessuno, ne tanto meno di consegnare a nessuno collane od oggetti stregati a chicchessia.
Ci beviamo insieme un caffè, scambiando due convenevoli, prima di lasciarci con una calorosa stretta di mano. È proprio vero che per essere grandi bisogna innanzi tutto essere piccoli, l'umiltà è la base di ogni vera grandezza, frase che ben si addice a Madama Rosmerta, almeno per come l'ho conosciuta io.
Rosmerta, in antichità, era la dea Romano-celtica della fertilità e abbondanza, divinità molto diffusa tra i Galli e perciò raffigurata con in mano una cornucopia, un sacchetto o una patera (coppa usata per versare liquidi durante i sacrifici rituali.); molti la individuano come la moglie di Mercurio, invece probabilmente Rosmerta era la paredra (seduto al fianco) del dio indigeno dei commerci e della ricchezza, adorato dalle popolazioni delle Gallie, tosto assimilato al Mercurio ellenico e romano. Infatti Madame Rosmerta nella Hogwarts della Rowling come in quella torinese sono legate al mondo del commercio e alla produzione e distribuzione di bevande.
Anche questa piazza è stata più volte ripresa in molti film, come "Cous Cous" (1996) del regista Umberto Spinazzola, che racconta la trasformazione dei Murazzi, da magazzini a locali di una nuova Torino multietnica. Il film descrive le peripezie del gruppo musicale multietnico Cous Cous alla ricerca di una sala prove, dopo essere stato cacciato dalla sala torinese in cui prova i propri brani in quanto i condomini sono infastiditi dal suono troppo elevato. Si trasferiscono in una baracca ma anche questo precario luogo per le prove musicali della band verrà però abbattuta per fare posto ad un'autostrada in costruzione.
Oppure anche il film "Un Uomo, una Città", (1974) del Regista Romolo Guerrieri, tratto dal romanzo "Il Commissario di Torino" di Nivelli e Marcato. Interpreti del film Enrico Maria Salerno, Paola Quattrini e Gipo Farassino, nella straordinaria interpretazione di un poliziotto meridionale. Il capo della Squadra Mobile di Torino viene trasferito quando scopre un losco giro di droga e prostituzione in cui è coinvolta la Torino bene. Anche un giornalista, suo amico e collaboratore, viene messo a tacere. Il Film è girato in tante parti di Torino, come ad esempio il Borgo Medievale, e la Questura è ambientata, almeno l'ingresso, nel Conservatorio in Piazza Bodoni. Nella pellicola il protagonista pedina un sospetto fino ai Murazzi, praticamente deserti, con un solo locale aperto: un raffinato club gay che all'epoca non esisteva.
Mi piace sempre osservare una antica farmacia, posta in piazza Vittorio, dove al suo interno, due misteriose figure femminili alate, con cornucopie e corone d'alloro, sono poste ai lati di una grande conchiglia, il tutto in puro stile neoclassico. La farmacia Operti ha un elegante portone in marmo, mi piace spesso ammirare i diversi vasi e barattoli in ceramica, posti sugli ottocenteschi scaffali, che rendono ancor più affascinante il lavoro dei moderni speziali.
Prima di proseguire per via Po mi sovviene ancora come Superga fu teatro dell'incidente aereo nel quale persero la vita i giocatori del Grande Torino il 4 maggio 1949 e anche che il povero architetto Juvarra, il progettista che realizzò questa imponente basilica barocca, manifestò il desiderio di esservi sepolto in una nicchia dietro la porta principale. Sfortunatamente si trasferì a Madrid nel 1735 dove morì l'anno successivo per essere sepolto nella chiesa dedicata a san Martino. Questa venne in seguito demolita senza che nessuno si preoccupasse di raccogliere le sue spoglie che andarono così disperse. Una storia simile a quella accaduta al Leonardo Da Vinci ad Amboise.



Fine XXVIII parte.