Blog di Dante Paolo Ferraris

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Chiaroscuri nella città eterna (VII parte)

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RomaRaggiungo con lunghi passi via della conciliazione, con l'intento di arrivare sotto l'obelisco vaticano.
Ho attraversato Ponte Sant'Angelo, quello che anticamente era denominato "ponte Elio", perché voluto dall'imperatore Publio Elio Adriano che lo fece costruire tra il 130 ed il 135 d.C. quale viale d'accesso al Mausoleo di Adriano. Successivamente, durante il Medioevo, il nome fu cambiato in "ponte S. Pietro" in quanto era l'unico accesso diretto per raggiungere la Basilica Vaticana dalla città. Invece il nome attuale si ricollega al folclore popolare che vuole che nel 590 d.C., Papa Gregorio Magno, durante una processione penitenziale, attraversando il ponte ebbe la visione dell'arcangelo Michele che dalla sommità della Mole Adriana riponeva nel fodero la spada, significando la fine della pestilenza che da tempo affliggeva la città di Roma.
Ben presto la denominazione "S. Angelo" si estese anche al Castello, sui cui spalti venne posta una statua raffigurante l'arcangelo Michele a ricordo della visione di Papa Gregorio Magno.
Ma su ponte "S. Angelo", vi erano anche due piccole cappelle espiatorie dedicate a "S. Maria Maddalena" ed ai "Ss. Innocenti", volute papa Niccolò V a memoria di un incidente causato da cavalli imbizzarriti, quando circa 200 pellegrini perirono ammassandosi sul ponte mentre defluivano dal Vaticano. Infatti durante il Giubileo del 1450, indetto con la bolla Immensa et innumerabilia fu esposto pubblicamente il velo della Veronica e durante una di queste esposizioni avvenne la tragedia. Questo Giubileo meritò l'appellativo di 'Anno d'oro', sia per il numero di pellegrini che giunsero a Roma ma soprattutto per l'intensa attività economica che produsse l'evento.
Per molti anni, le estremità di ponte sant'Angelo furono luogo di esecuzione della pena capitale e di esposizione dei corpi dei condannati a morte. Dal 1488 il ponte divenne la zona dove venivano esposte le teste dei decapitati o dove si lasciavano ciondolare gli impiccati ad esecuzione avvenuta. Si narra che durante l'anno santo del 1500 furono impiccati ben 18 malviventi e che furono appesi sul ponte, nove per ogni ingresso. Negli anni seguenti furono talmente numerose le esecuzioni che nacque il detto popolare: "Ce sò più teste mozze su le spallette che meloni al mercato".
Nel 1533 Clemente VII ordinò la demolizione delle cappelline volute da papa Nicolò V, ormai malridotte dopo il "Sacco di Roma", sostituendole con le attuali statue di "S. Paolo" e "S. Pietro". Le altre dieci belle statue che oggi l'adornano sono state realizzate dagli allievi della scuola del Bernini su suoi disegni, nel XVII secolo; solo due di queste furono realizzate direttamente dal grande artista, quelle con la "corona di spine" e "col cartiglio", scolpite in marmo. Queste due statue, considerate troppo belle per essere esposte alle intemperie, vennero sostituite da copie di bottega, mentre le originali furono portate nella chiesa di S. Andrea delle Fratte, dove ancora oggi si possono ammirare.
Oggi invece, incatenati tra loro ai lampioni, si trovano migliaia di lucchetti come nel più famoso Ponte Milvio, conosciuto soprattutto per i lucchetti degli innamorati, un pegno d'amore eterno che si scambiano i giovani innamorati, emulando i fascinosi protagonisti Step e Ginevra del romanzo "Ho voglia di te", ovvero il seguito del best-seller di Federico Moccia, "3 metri sopra il cielo" diventando anch'esso un film dal titolo omonimo con protagonisti Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti. Riccardo Scamarcio diverrà l'idolo di migliaia di adolescenti italiane e dal film nasce il fenomeno del lucchetto degli innamorati; infatti in una delle scene più famose del film, la coppia di innamorati scrive i propri nomi su di un lucchetto legandolo al Ponte Milvio, buttando poi la chiave dello stesso nel Tevere, come simbolo e promessa di amore eterno. Ben presto molti ponti di Roma e non solo si ritrovarono ricolmi di lucchetti e di giovani e anche meno giovani coppie d'innamorati emuli di Riccardo Scamarcio e Laura Chiatti. Ponte "S. Angelo" non ne passò immune, anzi per il massiccio afflusso di turisti e per la sua vicinanza con la Basilica di san Pietro i lampioni sono spesso appesantiti dai quintali di variopinti e strani lucchetti. Certamente questi giovani innamorati se sapessero quanti cadaveri hanno visto queste pietre, cercherebbero un altro luogo per promettersi amore eterno.
Un'altra vicenda ha come scenario ponte "S. Angelo" e racconta la storia di un atroce esecuzione con diverse versioni narrate. Quella più credibile è quella che racconta la storia di un caso criminale finito in una orrenda atroce esecuzione. I protagonisti sono Beatrice Cenci, la sua matrigna Lucrezia, il fratello Giacomo e il padre Francesco.
Francesco Cenci è descritto come un uomo tirannico, violento, rissoso e depravato, un uomo con un patrimonio economico dilapidato rapidamente dallo stesso, benché la famiglia Cenci si fosse conquistata ricchezza, onore e fama nel medioevo. Nel Rinascimento era ancora comunque una influente famiglia della Roma papalina.
Francesco si sposò a soli quattordici anni con Ersilia Santacroce dalla quale ebbe dodici figli di cui solo Antonia, Beatrice, Giacomo, Cristoforo, Rocco, Bernardo e Paolo arrivarono all'età adulta.
Morta la prima moglie, Francesco si risposa con Lucrezia Petroni, vedova benestante e madre a sua volta di tre figli. Costui fu più volte coinvolto in risse con altri biechi individui e all'apice della sua vita viziosa e sregolata fu anche accusato più volte di sodomia con donne e adolescenti, reato per il quale era previsto addirittura il rogo. Nel 1598 Francesco fu arrestato con l'accusa di abusi sessuali, per essere poi scarcerato e scagionato dalla terribile ed infamante imputazione dietro il pagamento di una forte ammenda. La stessa figlia Beatrice, che pare avesse subito violenza dal padre poco più che ventenne, diventa così simbolo della ribellione giovanile contro la tirannia paterna, dell'innocenza punita, divenendo anch'essa però donna molto spregiudicata.
Francesco affidò i due figli più piccoli, Bernardo e Paolo, ai preti e partì per Petrella Salto, appena fuori dallo stato pontificio, verso l'Abruzzo, nel territorio del Regno di Napoli, dove vissero per un po' Beatrice e la moglie Lucrezia, recluse al secondo piano di una lugubre rocca,.
La rocca, feudo di Marzio Colonna, al quale aveva chiesto il prestito d'uso, fu luogo di loro reclusione con la motivazione di dividere i figli e impedirgli così di coalizzarsi ed attentare alle esauste risorse finanziarie. Ma "nascondendo" Beatrice, probabilmente voleva anche evitare che qualche pretendente la sposasse e pertanto sarebbe stato costretto a versare la dote. Nonostante tutto Beatrice riuscì a scrivere delle lettere a suo fratello Giacomo e ad alcuni parenti, nelle quali denunciava le violenze e le sevizie a cui dovevano sottostare lei e la matrigna ottenendo come risultato, una volta scoperta la corrispondenza epistolare, l'irrigidimento del padre e ulteriori violenze.
A guardia delle due donne furono assegnati dal Cenci due servi, tra i quali tale Marzio Floriani detto il Catalano e Olimpio Calvetti, fedele castellano della famiglia Colonna.
Olimpio Calvetti o Galvetti, un cinquantenne di bell'aspetto, sposato con Plautilla Gasparini e dal passato eroico avendo combattuto nella battaglia di Lepanto agli ordini di Marcantonio Colonna, presto diventò l'amante di Beatrice, probabilmente la stessa ragazza s'adoperò nell'accendere dei sentimenti, con lo scopo di convincere Olimpio a uccidere suo padre.
Con la complicità del fratello Giacomo, che gli fece avere una fatale dose di oppio o altra droga soporifera, il 9 settembre del 1598, dopo aver addormentato Francesco Cenci, Olimpio e Marzio, prima lo immobilizzarono e dopo lo uccisero a colpi di mazza, infine presero il corpo, lo buttarono dalla rocca, simulando il cedimento di un parapetto di legno di un balcone. L'uomo viene rapidamente seppellito, anche per le accuse a lui rivolte di sodomia.
Alcuni mesi dopo il commissario del vicereame di Napoli, scoperte lenzuola e materassi intrisi del sangue di Francesco Cenci, fece riesumare il corpo e così scoprì la crudele verità.
Il caso passò così nelle mani della giustizia del pontefice che, attraverso torture e confessioni varie, risalì ai mandanti dell'efferato delitto. Olimpio fuggì via da Roma ma la sua fuga finì tragicamente per mano ignota di sicari che lo decapitarono. Marzio, dopo l'arresto, venne condotto nudo nella stanza della tortura e in base alla procedura della territio ciò sarebbe dovuto bastare per terrorizzare l'imputato sotto la minaccia del supplizio. Infatti Marzio confessò subito il delitto e accusò le mandanti quali Lucrezia e Beatrice.
Giacomo e le due donne vennero imprigionati in Castel'sant'Angelo ma continuarono a negare, certi di non dover subire torture in quanto appartenenti alla nobiltà, un atteggiamento ingenuo e tipico della arroganza di certi aristocratici, nonostante fossero stati costretti ad assistere alla tortura di Marzio il Catalano, che confermerà le accuse. Lo sventurato morirà a causa dei supplizi subiti. Fu arrestato anche un fratello di Olimpio e posto sotto lungamente tortura, convinti che fosse al corrente dell'omicidio di Francesco Cenci. Il papa Clemente VIII, nell'agosto del 1599, emana motu proprio l'autorizzazione al tribunale a torturare anche le due donne. Il fratello Giacomo, sottoposto alla tortura per il tempo di un credo, confessa tutto, attribuendo la colpa al defunto Olimpio, confessa anche il fratello minorenne Bernardo, al corrente della congiura; Lucrezia, sottoposta a tortura con il riguardo di non essere denudata e depilata come voleva la regola, accusa Beatrice e il suo amante Olimpio. Nonostante Giacomo e il fratello Bernardo vengano nuovamente torturati sotto i suoi occhi, Beatrice continuò a negare, fintanto che anch'essa venne appesa alla corda. Solo con il supplizio della corda confesserà: la tortura della corda è terribile, consisteva nel legare le braccia dell'imputato dietro la schiena con una stringa di pelle. La stringa è poi assicurata ad una corda con la quale l'imputato viene sollevato, restando sospeso a mezz'aria. Questa posizione creava un atroce dolore e slogature se non storpiature anche permanenti. La durata della tortura variava secondo il tempo di recitazione delle preghiere, dal Gloria al Credo.
Furono così ritenuti colpevoli del delitto Beatrice, Giacomo, Bernardo e Lucrezia, nonostante l'appassionata requisitoria del giureconsulto Prospero Farinacei.
Nella mattinata dell'11 settembre 1599 i condannati sono accompagnati al patibolo dai salmodianti confratelli di san Giovanni decollato. Solo Bernardo si salva in considerazione della sua giovane età ma prima dovette assistere alla esecuzione dei suoi parenti e la cosa lo sconvolse a tal punto da renderlo pazzo; diverse versioni lo vedono internato in un manicomio dove morì senza essere seppellito, altre che fu condannato al carcere a vita, o ancora trasferito in catene al remo nelle galere pontificie.
La prima a salire sul patibolo posto sopra Ponte Sant'Angelo, davanti a Castel Sant'Angelo al di qua del Tevere, fu Lucrezia, che issata in lacrime fu decapitata. Subito dopo toccò alla ventiduenne Beatrice che subì la stessa sorte. Narrano le vicende che il colpo del boia fu talmente forte che i muscoli delle gambe per reazione di sollevarono: "le si alzò una gamba con tal furia che quasi tutti buttò li panni in spalla". La fine di Giacomo fu la più atroce: già sul carro che dal carcere lo conduceva al patibolo, dovette subire atroci torture con pinze infuocate e lacerazioni delle carni. Quindi, giunto al patibolo, fu prima stordito con un colpo di mazza, poi squartato e scannato.
I resti dei condannati rimasero esposti per ventiquattro ore con torce accese tutt'intorno. Secondo la tradizione orale pare che i due boia e carnefici, mastro Alessandro e mastro Peppe, conclusero tragicamente la loro esistenza. Il primo, preso dai tormenti di aver usato violenza con l'attanagliamento di Giacomo Cenci, morì due settimane dopo, il secondo morì accoltellato un mese dopo.
Molte sono le leggende che aleggiano intorno alla fine di Beatrice, la più nota è quella che vuole che il suo fantasma appaia la sera dell'11 settembre di ogni anno sugli spalti della Rocca di Petrella Salto, ma anche quella che vedrebbe lo spettro della defunta passeggiare sugli spalti di Castel Sant'Angelo all'imbrunire.
Molti asseriscono invece di aver visto all'alba, preceduta da un leggero venticello, lo spettro evanescente di una giovane donna vestita con abiti di foggia rinascimentale, passeggiare sui luoghi dove i Cenci furono giustiziati, udendo in sottofondo strani lamenti e sommessi pianti.
Questo triste epilogo, avviene nei luoghi ove oggi giovani innamorati si giurano amore eterno ed incatenano simbolicamente i loro sentimenti ad un lucchetto gettandone la chiave nel Tevere. Si narra, inoltre che ad assistere all'esecuzione ci fosse il famoso pittore, Michelangelo Merisi meglio conosciuto come il Caravaggio; costui pare avesse seguito con attenzione la tragica scena dell'esecuzione e che avesse poi immortalato l'espressione degli occhi dei carnefici, il comportamento delle cortigiane, il coraggio e la paura dei condannati, il balenio della lama nel gesto omicida della celebre tela "Giuditta che decapita Oloferne".
Ormai giunto in via della Conciliazione, mi soffermo ad osservare Palazzo della Rovere, parzialmente occupato dall'Hotel Columbus. Questa magnifica residenza quattrocentesca ospita dei tesori sconosciuti. Il palazzo, voluto dal Cardinale Domenico della Rovere, nipote di papa Sisto IV fra il 1480 e il 1490, è ora di proprietà dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro, ordine voluto da Goffredo di Buglione che dopo la liberazione di Gerusalemme, incaricò della custodia e difesa del Santo Sepolcro un gruppo di cavalieri crociati che formarono un ordine religioso e militare. Perduta Gerusalemme, per mano di Saladino, i Cavalieri tornarono in Europa nel 1291, ove furono protetti da re e principi con concessioni di beni e privilegi. I cavalieri dell'Ordine ancora oggi continuano ad espletare la loro missione religiosa per la preservazione della fede in Terra Santa, favorendo i pellegrini che vi si recano. Si può visitare previa prenotazione ed ammirare così i cinque saloni del piano nobile che ospitano gli uffici di rappresentanza dell'Ordine, affrescati sapientemente dal Pinturicchio e dalla sua scuola. Si racconta che Carlo VIII, che nel giugno del 1495 sostò a Roma, preferisse alloggiare qui piuttosto che in Vaticano, prima di proseguire la spedizione militare nel sud dell'Italia. È conosciuto anche come Palazzo dei Penitenzieri, perché per circa 300 anni, i penitenzieri, cioè i religiosi incaricati di confessare i pellegrini diretti a San Pietro ne furono i proprietari.
Si vuole che nell'ala sinistra del palazzo, che era già stata costruita nel 1484, il porporato assistette, in qualità di testimone, alla donazione dell'isola di Cipro fatta da Carlotta di Lusignano a Carlo I di Savoia.
In via di Borgo Santo Spirito un grande orologio sovrasta il palazzo del Commendatore, come era chiamato il presidente del pio Istituto di santo Spirito. Un occhio attento vedrebbe che oltre ad essere un orologio incassato in uno scudo nobiliare sovrastato da un cappello cardinalizio, il tutto in stile barocco, le lancette, anzi la lancetta in bronzo è a forma di ramarro, (simbolo di morte e rinascita), mentre la corona dell'orologio è un serpente che si mangia la coda. La stranezza non è solo questa ma sta nel quadrante diviso in sei parti anziché dodici come gli orologi normalmente da noi conosciuti.
Tutto inizia quando si comincia in occidente a misurare le ore di una giornata. La tradizione, nata ad Atene nel IV secolo a.C e portata avanti dai Romani, vuole che si inizi e si concluda la giornata con il tramonto del sole. Il tutto calibrato sulle esigenze lavorative nei campi dell'uomo, una concezione lontana dalle misurazioni attuali basate sui calcoli astronomici e diffuse dopo la Rivoluzione Francese. Infatti i greci e i romani suddividevano la giornata in due parti uguali, che però variavano a seconda delle stagioni, quindi più lunghe d'estate che d'inverno. In altre parole l'ora diurna d'inverno era più breve che quella notturna. Gli ordini monastici, in particolare i benedettini, divisero le ore in quadranti solari che indicavano l'ora canonica ovvero il mattutino, il vespro, le ore terze, la sesta,nona e la compieta. Soltanto nel XIII secolo con la comparsa degli orologi meccanici si poté avere le ore con una durata fissa e sempre uguale in durata. La giornata aveva quindi inizio al tramonto e i quadranti erano divisi in ventiquattro ore. Ben presto però veniva difficile, oltreché fastidioso, contare 24 rintocchi. Si passò quindi a far suonar le campane 6 volte al giorno e non più ventiquattro e tale semplificazione fu adottata anche nei quadranti degli orologi che passarono dall'indicare 24 ore ad indicarne 6, come quello posto sul Palazzo del Commendatore. Durante la campagna napoleonica in Italia, l'ora "italica" o "romana" fu sostituita dall'ora alla "francese" con i quadranti numerati da I a XII e con inizio delle giornate fissato a mezzanotte. Da questo momento in poi il nuovo sistema fu adottato in quasi tutta Italia.
Addossata all'antico complesso dell'ospedale di Santo Spirito in Sassia, si nota ancora una piccola casupola, con una grande grata in ferro lavorato con dei disegni a grandi e piccoli cerchi e figure romboidali; all'interno di ognuno dei grandi cerchi è inserita una croce, ad eccezione di uno, quello più basso appoggiato ad altezza d'uomo su un tavolato di pietra, oggi nascosto da assi di legno che nascondono altresì, alla vista del viandante, una grande ruota girevole. Si tratta infatti della ruota degli innocenti, creata appositamente per depositare i neonati indesiderati, garantendo l'anonimato a chi li abbandonava. Prima di queste ruote, la pratica più diffusa era quella della "oblazione" ossia di "donare" il figlio ad un convento che gli offriva accoglienza e futura vita monastica. A volere l'istituzione della ruota degli innocenti, fu papa Innocenzo III che fu spettatore, secondo le cronache, dello spettacolo di corpi di bambini abbandonati che galleggiavano sul Tevere. La ruota, posta vicino ai conventi, permetteva di abbandonarvi il bambino, suonare una campanella affinché la suora fosse avvertita e potesse ritirare la creatura, il tutto nella massima riservatezza.
In Italia l'uso delle ruote fu abolito definitivamente nel 1923 con un regolamento approvato dal governo Mussolini. Vi sono diversi personaggi illustri che possiamo annoverare tra quelli salvati da una diversa tragica fine dalla ruota degli innocenti, come ad esempio Gian Giacomo Rousseau e Papa Gregorio VII.
Giungo finalmente in Piazza San Pietro, dove dal 1817 si erge al centro della grande e magnifica piazza il celebre obelisco di piazza san Pietro o del Vaticano. Fu il primo obelisco innalzato da papa Sisto V, ed è un unico blocco di granito rosso alto 25.5 metri che con il basamento raggiunge quasi i 40 metri. Innalzato la prima volta dal faraone Nencoreo III a Heliopolis nel XX secolo a.C., fu portato a Roma dall'Imperatore Caligola e collocato nel circo di Nerone nel 37 d.c. Vi rimase fino al 1586, quando appunto papa Sisto V lo fece spostare in Piazza san Pietro. L'obelisco funge da gnomone di una delle più grandi meridiane al mondo infatti sul selciato della piazza, una fascia di granito unisce in linea retta la base dell'obelisco, fino alla fontana del Maderno.
Due dischi di marmo indicano dove cade a mezzogiorno l'ombra della croce posta in cima all'obelisco, nei giorni del solstizio d'estate (cancro) e di quello d'inverno (capricorno). Altri 5 dischi indicano poi il passaggio del sole nei restanti segni zodiacali accoppiati (Leone-Gemelli; Vergine- Toro; Bilancia - Ariete; Scorpione-Pesci, e Sagittario-Acquario).
L'obelisco fu abbellito da diversi papi; Sisto V volle decorarlo con quattro leoni bronzei che ricordano il suo stemma di famiglia, Alessandro VII volle coronarlo con i monti e le stelle della famiglia Chigi, Innocenzo XIII volle aggiungerci le aquile bronzee, motivo araldico della sua famiglia e Clemente XI aggiunse il sostegno della stella su 4 monti. Anticamente una sfera era posta sulla cima dell'obelisco e rimossa fu trovata senza aperture ma sforacchiata dai colpi di archibugio dei Lanzichenecchi durante il sacco del 1527; fu trasferita dapprima in cima alla scalinata del Campidoglio e poi nella sala dei bronzi al Museo dei Conservatori. Una leggenda vuole che la sfera contenesse le ceneri di Giulio Cesare e la concessione di una indulgenza perpetua di dieci anni a chi, di fronte all'obelisco, venerasse la croce di Cristo recitandovi un Pater ed un Ave, fece presumere che papa Sisto V avesse collocato nella gran croce di bronzo posta sull'obelisco un frammento della Vera Croce di Cristo.
Riprendo il mio cammino, verso il prossimo obelisco romano, percorrendo per un ampio tratto il lungo Tevere, facendo la mia via crucis tra auto parcheggiate ovunque, compreso i marciapiedi, turisti che camminano con il naso all'insù e che rischiano inevitabilmente di venirti addosso e venditori ambulanti che cercano di rifilarti paccottiglia varia. Questi ultimi ormai lavorano in gruppo ed è difficile evitarli, posso solo ammirare la loro organizzazione che li vede scegliere il probabile cliente, accerchiarlo benevolmente, circuirlo con molte parole, mentre altri loro colleghi sono appostati in punti strategici, di guardia, per avvisare il venditore di eventuali arrivi della Polizia municipale.



Fine VII parte.