Blog di Dante Paolo Ferraris

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Luci ed ombre a Torino (XXXIX parte)

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Argus GazzaGiunto ormai davanti a palazzo Chiablese che dal 1958 al 1985 è anche stata sede del Museo Nazionale del Cinema di Torino, mi soffermo a guardare la piccola piazzetta che è incorniciata da palazzo Chiablese, palazzo reale e dal duomo. Il palazzo Chiablese è una delle tante residenze dei Savoia ed è l'entrata principale in Piazza S. Giovanni.
Il palazzo fu fatto costruire dal duca di Savoia Emanuele Filiberto su abitazioni preesistenti.
Fu rimaneggiato nel 1753-54 dall'architetto Benedetto Alfieri. La prima proprietaria fu la marchesa Beatrice Langosco di Stroppiana, che lo ricevette in dono da Emanuele Filiberto forse suo amante.
Divenne poi residenza dell'ex cardinale Maurizio di Savoia e della sua consorte Ludovica a partire dal 1642 successivamente vi abitarono il secondogenito di Carlo Emanuele III, Benedetto Maurizio duca del Chiablese a cui si deve il nome del palazzo) ed altri membri della famiglia reale.
Durante il periodo di occupazione napoleonica di Torino fu abitato da Camillo Borghese e sua moglie Paolina. Camillo aveva sposato la sorella dell'Imperatore Napoleone I e nel 1808 fu nominato governatore generale, con sede a Torino, dei nove dipartimenti transalpini, corrispondenti ai territori del Piemonte (fino alla Sesia), dell'ex ducato di Parma e della Liguria.
Tornato ai Savoia con la Restaurazione, divenne residenza del re Carlo Felice che vi morì nel 1831. Fu abitato da Ferdinando duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto; nel 1851 vi nacque Margherita, prima regina d'Italia dal 1878 al 1900.
Attualmente è sede della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte.
Sull'angolo opposto a palazzo Chiablese si affaccia con l'ingresso in via XX Settembre il palazzo del seminario arcivescovile che appartiene all'irripetibile stagione juvarriana, del secondo e terzo decennio del ‘700. Sull'onda della vittoria sui Francesi nel 1706 e del successo diplomatico riportato con la pace di Utrecht del 1713 e l'attribuzione del titolo di re di Sicilia, Vittorio Amedeo II riuscì a fare di Torino una capitale europea, con una grande rivoluzione urbanistica grazie anche all'architetto siciliano, l'abate Filippo Juvarra, chiamato dalla Sicilia a Torino dallo stesso sovrano il 13 ottobre 1714 e nonostante il seminario non fosse progettato dallo Juvarra ma da Pietro Paolo Cerruti si integra a pieno titolo nel periodo Juvarriano. Antecedentemente il seminario aveva sede in via Dora Grossa, l'attuale via Garibaldi ed aveva iniziato la sua attività il 4 giugno 1567, dopo varie spostamenti e risultandone gli spazi comunque ormai angusti ed insufficiente, si decise la costruzione di uno nuovo : i lavori iniziarono nel 1711, per iniziativa del nuovo rettore, il teologo Pietro Costa. Il palazzo ha una facciata austera e un monumentale portone d'ingresso posto tra eleganti colonne. Il seminario è rinomato per la sua prestigiosa biblioteca, prevalentemente ecclesiastici, fondata nel 1751 con un patrimonio di 180.000 volumi ed antichi testi.
Di fronte all'ingresso di palazzo Chiablese, sul muro laterale, del duomo tento di leggere ciò che non so leggere; vi è un elemento poco consono ad un edificio di culto cristiano ed è una ben strana "meridiana placca" che reca dei segni zodiacali, tra l'altro disposti secondo un ordine inconsueto. Comincia con il segno del Capricorno per terminare con quello del Cancro. Se consideriamo che la chiesa ha sempre condannato l'astrologia è molto strano trovarla sulle pareti di una chiesa, anche se poi in verità erano molti i preti che ne studiavano l'arte nascosti nei loro monasteri. Questa meridiana viene definita zodiacale e secondo me erroneamente perché oltre ai segni zodiacali, la meridiana ha da una una linea che dall'alto parte verso il basso disegnando una lunga freccia, mentre a un terzo di questa freccia una linea più corta e messa di traverso a formare una croce, quasi si volesse simulare la croce di Cristo. Solo che alle 4 estremità di questa ipotetica croce quasi come segni 'cardinali', troviamo i simboli dei solstizi d'estate 21 giugno (cancro), d'inverno 22 dicembre (capricorno) ed equinozio di primavera 21 marzo (ariete) e d'autunno 23 settembre (bilancia). Sembra poi di distinguere una coppa o calice nella parte superiore, sovrastata dal segno dello Scorpione. Un altro dei misteri di una città enigmatica ed affascinante, ancor tutta da scoprire.
Salgo i gradini di marmo per accedere al duomo di Torino. L'attuale duomo sorge in uno dei punti più ricchi di storia della città, infatti è posto a pochi passi dall'area archeologica, ossia adiacente al teatro romano dell'antica Julia Augusta Taurinorum. In quest'area anticamente vi erano tre chiese paleocristiane in stile romanico, probabilmente edificate su templi pagani preesistenti o altri edifici pubblici, erano dedicate a san Salvatore particolarmente legata alla vita pastorale di san Massimo, leggendario pastore e primo vescovo di Torino; santa Maria Dompno; san Giovanni Battista che conteneva le reliquie di sant'Orsola e la mandibola di san Giovanni Battista.
Di quest'ultima si pensa che la consacrazione dell'edificio al Battista sia da far risalire ai Longobardi e con precisione ad Agilulfo, re dal 591 al 615, la cui moglie, Teodolinda, fece proclamare san Giovanni patrono del regno.
Le tre chiese vennero abbattute tra il 1490 e il 1492 non venne invece toccato il campanile fatto costruire tra il 1468 e il 1469 dal vescovo Giovanni de Compey, a spese dello stesso vescovo. Lo stemma del vescovo in marmo bianco e una targa furono murati sulla facciata del campanile per ricordare il suo vescovo. In precedenza vi era sulla piazza un più antico campanile, già attestato nel 1356, ma definitivamente abbattuto nel 1491 quando una parte del campanile rovinò al suolo, uccidendo un passante.
Dell'antica chiesa di san Giovanni ci rimangono alcune tragiche cronache che ci raccontano di un assassinio accaduto nella cattedrale che particolarmente scosse la città. Facendo un breve tuffo nella storia ricordiamo che alla morte del re longobardo Rodoaldo, salì sul trono re Ariperto I, figlio di Gundoaldo, fratello della regina Teodolinda. Costui già duca di Asti, volle a succedergli congiuntamente i propri figli Pertarito e Godeperto, il primo elesse a sua capitale Milano, mentre il fratello si insediò a Pavia. Godeperto invocò, tramite il duca di Torino, Garibaldo, l'aiuto del duca di Benevento, Grimoaldo, che accorse con truppe provenienti, oltre che dal suo ducato, anche da quelli di Spoleto e di Tuscia. Giunto a Pavia nel 662, il duca, istigato da Garibaldo, uccise il sovrano e ne occupò il trono. Garibaldo convinto di non e aver lasciato tracce del complotto, si recò in san Giovanni, nella domenica di Pasqua di quello stesso anno, per assistere alla funzione: un "homunculus" fedele di Godeperto si scaglio su Garibaldo uccidendolo, alcuni dicono che addirittura gli stacco la testa del collo vendicando così il suo padrone. L'assassino fu subito ucciso dagli altri presenti in duomo e si narra che i loro due fantasmi si aggirino ancora oggi nella cripta del duomo. Curiosamente una donna, considerata una strega aveva predetto qualche giorno prima che in duomo si sarebbe sparso sangue, ovviamente non fu creduta e mandata subito al rogo o lapidata.
Chi si aspetta dal duomo di Torino una delle più grandi espressioni architettoniche del barocco piemontese si sbaglia e ne rimane deluso. La facciata in puro stile rinascimentale è in marmo bianco, con tre portoni di cui, quello centrale, sormontato da un timpano è affiancato da due volute, ossia particolare ornamento geometrico di forma a spirale.
Sul lato sinistro vi è la torre campanaria, staccata dalla fabbrica del duomo ed è in stile romanico, realizzata verso il 1470 come opera voluta dal vescovo Giovanni di Compeys e dedicata a Sant'Andrea, e successivamente sopraelevata nel 1720 da Filippo Juvarra in stile barocco.
La reggente di Savoia, vedova di Carlo I, Bianca di Monferrato, posò la prima pietra del nuovo nascente duomo, sempre dedicato a san Giovanni era il 22 luglio 1491. La sua edificazione fu voluta sia dal duca sia dal vescovo, Domenico della Rovere. I lavori vennero affidati ad Amedeo de Francisco da Settignano, detto anche "Meo del Caprino", che vi lavorò fino alla morte nel 1501. I lavori si conclusero nel 1505 e il 21 settembre di quell'anno si ebbe la consacrazione, con una messa solenne tenuta dall'arcivescovo di Laodicea, Baldassarre Bernezzo, poiché il vescovo titolare della città, Giovanni Ludovico della Rovere, era in quel momento a Roma.
Nel 1515, Leone X, parente del vescovo, elevava a sede metropolitana la chiesa di san Giovanni.
L'edificio fu successivamente ingrandito, col fine di creare un degno ambiente per la conservazione della Sindone, si succedettero diversi progettisti da Bernardino Quadri a Carlo di Castellamonte fino a che nel 1667 venne così chiamato a concludere l'opera Guarino Guarini, dal 1666 già attivo nella Real chiesa di san Lorenzo. I lavori per la nuova cupola che dovrà contenere la Sindone durarono ventotto anni e vennero terminati nel 1694, ed inaugurati con una messa solenne.
Ferdinando Rondolino nel suo saggio sul duomo di Torino, scrive che in duomo nel 1593 erano conservate anche le reliquie: un dito di santa Caterina, altri dicono una falange di santa Rita; un frammento della tunica di san Francesco, e addirittura di Gesù, comunque oggi scomparse. La guida che accompagna i turisti la sento raccontare la storia della morte dell'abate Prever. Mi intrufolo nella comitiva per ascoltarla anch'io; l'abate Prever era molto amato e venerato dai fedeli, e stramazzò al suolo mentre recita l'omelia in duomo il 7 febbraio 1751. Esposta la salma in chiesa, gruppi di fanatici strapparono le vesti dell'abate per farne reliquie, anche i capelli vennero fatti oggetto di questi forsennati.
Il duomo è l'unico esempio ancora visibile dell'arte rinascimentale in città.
Alzo la testa per ammirare la cupola del Guarini, posta dietro la già presente e più bassa cupola di San Giovanni.
L'edificio si presenta austero, costruito su pianta a croce latina e diviso in tre navate. Arricchito un po' in ogni secolo, l'interno del duomo si presenta oggi intensamente decorato, ai lati, da numerose cappelle, nelle quali lavorarono svariati artisti e decoratori. Spicca agli occhi di chiunque vi entri la sontuosa Tribuna Reale, opera dell'architetto Simone Martinez, voluta da Carlo Emanuele III di Savoia.
Invece re Carlo Alberto volle impreziosire il duomo con una copia su tela dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Questa realizzata da Luigi Cagna nel 1835 che venne posta sulla controfacciata della chiesa.
Sono entrato in duomo accodandomi ad un numeroso gruppo di turisti; l'interno del duomo è ricco di opere d'arte di vari pittori e scultori. Il gruppo di turisti si sparpaglia tra le varie cappelle, mentre io mi soffermo presso l'altare della seconda cappella sulla destra ad ammirare il polittico dei santi Crispino e Crispiniano, opera di controversa attribuzione tra Defendente Ferrari o di Giovanni Martino Spanzotti con alle pareti 18 storie dei due santi. Mentre una bella tela forse del 1655 di Bartolomeo Caravoglia raffigurante Madonna con quattro santi è nella terza cappella a destra, dello stesso autore la pala con Santa Barbara e San Girolamo della quarta cappella destra e della Madonna con i santi Ippolito e Cassiano nella quinta cappella destra. Bartolomeo Caravoglia ha anche dipinto il sottarco della terza cappella della navata sinistra. Invece sono di Pierre Legros le statue marmoree di Santa Cristina e di Santa Teresa, realizzate per la facciata della chiesa di santa Cristina e poi invece collocate in duomo. A Stefano Maria Clemente si devono alcune statue lignee.
Vorrei poter accedere alla sagrestia per poter vedere la tela del Battesimo di Gesù sempre Bartolomeo Caravoglia e il sepolcro del vescovo Claudio di Seyssel, il cui monumento funebre, risalente al 1526 è opera dello scultore Matteo Sanmicheli ma mi è impossibile, allora mi limito a osservare alcune lapidi poste in cattedrale dove vennero sepolti anche tre nunzi pontifici ossia Francesco Bacod, vescovo di Ginevra, morto il 1º luglio 1568; Corrado Tartarini di Città di Castello, vescovo di Forlì, morto nel 1602, e Giambatista Lando, morto nel 1648 e del vescovo Ursicino (detto anche Urso o Orso) che fu vescovo di Torino dal 572 al 609.
Prima di uscire devo sostare, come tutti i turisti davanti alla raffina scultura di fine quattrocento della tomba di Giovanna d'Orliér de la Balme su cui era presente lo stemma gentilizio posto tra un leone ed un cigno ma che, come tutti gli altri stemmi nobiliari presenti nel duomo, fu completamente cancellato dai rivoluzionari francesi. Costei trovò sepoltura in duomo per le numerose benemerenze che l'estinta ebbe verso la cattedrale
Ma essere nel duomo di Torino e non pensare alla Sindone e alla sua particolare storia è impossibile che brevemente riassumo.
Il 20 giugno il cavaliere, Goffredo di Charny che ha fatto costruire una chiesa nella cittadina di Lirey, piccolo Comune francese nella regione della Champagne-ardenne, dove risiede, concede alla collegiata della stessa chiesa un lenzuolo che, per sua dichiarazione, è la Sindone che avvolse il corpo di Gesù, ma non si conosce come ne sia venuto in possesso. L'unica cosa certa e che nel XX secolo nella Senna viene ripescato un medaglione votivo dove su di esso sono raffigurati la Sindone da un lato e le armi degli Charny e quelle dei Vergy, (il casato di sua moglie) dall'altro. Il medaglione è conservato al Museo Cluny di Parigi. Alcune vicende storiche dell'epoca le troviamo sul cosiddetto "memoriale d'Arcis", dove Pietro d'Arcis parrebbe volesse far dichiarare falsa la Sindone perché essa attirava i pellegrini a Lirey, facendo così calare le entrate della cattedrale di Troyes che era parzialmente crollata.
Nel 1390 Clemente VII decreta con proprie Bolla, l'autorizzazione all'esposizione della Sindone a condizione che si dichiari che si trattava di una pictura seu tabula, cioè un dipinto "si dica ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a imitazione del Sudario" come trascritto da Luigi Garlaschelli, in Processo alla Sindone, Avverbi Edizioni, 1998. Alcuni mesi dopo, il Papa sostituisce questa espressione con la formula figura seu representacio, nella quale non esclude l'autenticità. Con altra bolla viene vietato a Pietro d'Arcis di esprimersi contro la Sindone, pena la scomunica.
Inizia in seguito una lunga disputa per il possesso della Sindone, infatti il conte Umberto de la Roche, marito di Margherita di Charny, figlia di Goffredo II, figlio di Goffredo di Charny, intorno al 1415 prende in consegna il lenzuolo per metterlo al sicuro dalla guerra tra la Borgogna e la Francia. La stessa Margherita si rifiuta poi di restituirlo alla collegiata di Lirey reclamandone la proprietà e comincia a organizzare una serie di ostensioni in giro per l'Europa ma nel 1449 a Chimay in Belgio dopo una di queste ostensioni il vescovo locale ordina un'inchiesta e obbliga Margherita a mostrare le bolle papali in cui il telo viene definito una raffigurazione e venne così espulsa dalla città. Nel 1453, la vende ai duchi di Savoia e nel 1457 a causa di questi suoi comportamenti viene scomunicata.
I Savoia fanno costruire una cappella per conservare la Sindone nella loro capitale, Chambéry, e nel 1506 ottengono da papa Giulio II l'autorizzazione al culto pubblico della Sindone.
Un incendio mette a rischio la Sindone la notte tra il 3 e il 4 dicembre 1532; la cappella va a fuoco e il lenzuolo rischia di essere distrutto fortunatamente riescono a portare in salvo il reliquiario d'argento contenente la Sindone ma alcune gocce d'argento fuso cadute sul lenzuolo lo bruciandolo in più punti.
Le suore clarisse di Chambéry la riparano applicando dei rattoppi alle bruciature e cuciono il lenzuolo su una tela di rinforzo. Nel frattempo, poiché si è diffusa la voce che la Sindone sia andata distrutta o rubata, viene di nuovo esposta pubblicamente nel 1534.
Durante la guerra del 1535 il duca Carlo III nel lasciare Chambéry porta con sé la Sindone, viaggia e soggiorna a Torino, Vercelli e Nizza e soltanto nel 1560 con Emanuele Filiberto rientra a Chambéry. Il duca Emanuele Filiberto quando decide di trasferire la capitale del ducato da Chambéry a Torino nel 1562, vuole portarvi anche la Sindone ma è conscio che avrebbe avuto contro il clero locale e il popolo.
Nel 1578 l'occasione si presenta quando l'arcivescovo di Milano, il futuro san Carlo Borromeo, fa sapere che intende sciogliere un voto recandosi in pellegrinaggio a piedi a visitare la Sindone. Il duca Emanuele Filiberto fa trasferire la reliquia a Torino per abbreviargli il cammino, che san Carlo percorre in cinque giorni. Questa fu un occasione affinché la Sindone non rientri più a Chambéry. Da allora resterà per sempre a Torino, salvo brevi spostamenti, come quando Torino nel 1706 è assediata dai francesi e la Sindone viene trasferita per breve tempo a Genova, rientrata a Torino vi rimarrà per moltissimi anni, rimanendovi anche durante il periodo dell'occupazione napoleonica. Solo nel 1939, nell'imminenza della seconda guerra mondiale, viene nascosta nel santuario di Montevergine in Campania dove rimane fino al 1946 rientrando poi definitivamente a Torino.
In occasione dell'ostensione pubblica del 1898 l'avvocato torinese e appassionato di fotografia Secondo Pia, ottiene dal re Umberto I, il permesso di fotografare la Sindone; il Pia esegue due fotografie e al momento dello sviluppo gli si manifesta un l'immagine della Sindone sul negativo fotografico aprendo l'interesse degli scienziati e dando inizio a un'epoca di studi mai conclusi. Nel 1931 viene eseguita una nuova serie di fotografie, affidata a Giuseppe Enrie che confermano la scoperta del Pia.
Nel 1983 muore Umberto II di Savoia, ultimo re d'Italia che lascia la Sindone in eredità al Papa. Giovanni Paolo II stabilisce che essa rimanga a Torino e nomina l'arcivescovo della città suo custode. La Sindone rischiò di essere gravemente danneggiata nell'incendio scoppiato la notte tra l'11 e il 12 aprile 1997 che distrusse gran parte dell'opera guariniana della cupola. La reliquia venne portata in salvo grazie all'opera dei vigili del fuoco. Nel 2002 la Sindone viene sottoposta a nuovi restauri dove vengono rimossi i lembi di tessuto bruciato nell'incendio del 1532 e i rattoppi applicati dalle suore di Chambéry; anche il telo di sostegno (la "tela d'Olanda") applicata nel 1534 viene sostituito. Nel 2009 la proprietà della Sindone è messa in discussione e secondo il costituzionalista Francesco Margiotta Broglio, con l'entrata in vigore della Costituzione dell'Italia repubblicana del 1º gennaio 1948 la Sindone è diventata proprietà dello Stato italiano e pertanto il legato testamentario di Umberto II è nullo, tuttavia si può presumere che la Santa Sede abbia ormai acquisito la proprietà della Sindone per uso capione in quanto lo Stato italiano non ne abbia reclamato la proprietà.
Il lenzuolo riporta due immagini che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, con barba e capelli lunga, una frontale e l'altra di schiena e sono allineate testa contro testa che ebbi modo di vedere durante una ostensione. L'immagine è poco visibile a occhio nudo e può essere percepita solo ad una certa distanza o appunto sul negativo fotografico.
Ovviamente il mistero della Sindone ha scatenato la fantasia di molti scrittori di romanzi ma anche di fumettisti che molto hanno scritto e disegnato sulla sua vicenda.
Uscendo dal duomo, trovo sul sagrato Argus Gazza, costui è un Magonò ovvero un figlio di maghi e membro di una famiglia di maghi ma privo di poteri magici. Da sempre facente parte della corte dei potenti ma relegato a luoghi servili, anche nella Hogwarts della Rowling ricopre il ruolo di custode della scuola, mentre in quella torinese, pur mettendosi in evidenza con diversi servigi è considerato un estraneo ma accettato perché utile. Lo stato di servitù gli permette comunque di poter stare al tavolo dei "professori" ed è quello che sostanzialmente vuole. Da sempre tenta di apprendere le arti magiche ma non vi può tuttavia riuscire proprio per la sua condizione di Magonò.
Nella Hogwarts torinese, Gazza, è un uomo alto, con ampia e alta fronte stempiata e capelli che dell'antico castano hanno poco, come la barba il pelo bianco è ormai vincente. Il viso ovale è perennemente abbronzato, il naso a patata non è eccessivamente vistoso nè pronunciato, gli zigomi sono invece alquanto pronunciati, soprattutto quando tenta di sorridere, in questo caso intorno agli occhi compaiono alcune rughe che disegnano delle zampe di gallina. Alto, distinto, amante della moto, una presenza estranea al chiuso mondo della Hogwarts torinese; arriva dalla più profonda periferia e anche per questo ha trovato difficoltà a farsi accettare dai Mangiamorte, ma poi ne ha conquistato le grazie.
Per la frustrazione di essere un Magonò, Gazza prova invidia e odio nei confronti di tutti coloro che hanno raggiunto posti di rilevante potere nella Hogwarts torinese. Ci salutiamo amichevolmente e ci scambiamo i soliti convenevoli. Vorrebbe tenermi compagnia nella mia passeggiata per Torino, ma ha un importante appuntamento con un professore della Hogwarts torinese, pertanto rapidamente mi si accomiata.
Do una sguardo rapido al lato del Duomo dove è ben visibile il mosaico della Chiesa del Salvatore, una delle tre chiese romaniche, ben protetto da spessi vetri, attraverso così piazza san Giovanni per dirigermi verso la casa del Pingone e le porte Palatine.



Fine XXXIX parte.