Arrivando da porta Palazzo lungo via Tre Galline si incontra appunto l'omonimo ristorante. La sua presenza in quell'angolo di Torino è talmente antica che addirittura alcuni romanzi del settecento ne raccontano già dell'esistenza. Ma alcuni testi riportano la data di apertura a fine del 1500. Diverse volte ho avuto l'occasione di cenare il questo locale, proprio perché il menù è incentrato sulla classica cucina piemontese, fatta di antipasti misti, sformati su vellutata di tapinambour, agnolotti al sugo d'arrosto, stracotto di fassone al vino rosso, bolliti misti, fritto misto alla piemontese e bagna caoda. Per non parlare della moltitudine di formaggi, vini e dolci. In particolare io ero attratto invece da un altro tipico piemontese, ossia, la finanziera. Si racconta che questa squisitezza culinaria, almeno per me, fosse nata durante il Medioevo. È un piatto del Monferrato chierese che ha subìto nei secoli diversi rimaneggiamenti ed adattamenti. È comunque, ancora oggi, un piatto povero nato dal riutilizzo delle parti scartate durante la trasformazione dei galletti in capponi e di alcuni scarti di macellazione dei bovini. Il suo nome, la finanziera, molti lo fanno derivare dall'abito, chiamato proprio finanziera, indossato nel 1800 dai banchieri e dagli uomini di alta finanza, estimatore di questo piatto; altri attribuiscono l'origine del nome al tributo in natura pagato dai contadini ai gabellieri, appunto, per entrare in città. Io invece sono propenso a pensare che derivi dagli antichi doganieri e gabellieri, ma nel senso che erano talmente alte le tasse e quant'altro che dovevano pagare i contadini che gli rimaneva solo le creste dei gallo, frattaglie dei polli, cervella di vitello da mangiare.
Nel dopoguerra il locale era frequentato dal futuro attore, Raf Vallone, che dopo aver giocato nel Torino e aver partecipato alla Resistenza, prima di diventare attore cinematografico, era il responsabile della terza pagina (arte e cultura) dell'Unità che aveva la redazione in corso Valdocco 2.
Vicino a questo ristorante c'è piazza Emanuele Filiberto. Questa è una delle più antiche piazze di Torino, già chiamata piazza Carlo Ignazio Giulio, l'area fu poi dedicata a Emanuele Filiberto, il duca sabaudo, vincitore di san Quintino e che portò la capitale del ducato da Chambéry a Torino. Fu sempre Emanuele Filiberto a introdurre l'italiano nelle scritture ufficiali, anziché il solo francese. Questa piazza ha un'area rettangolare con pregevoli edifici con balconi in ferro battuto. Sull'angolo della piazza, verso via delle Orfane, vi è la storica farmacia della Consolata, fondata nel 1510. Ma il vero segreto celato dalla piazza, sta sottoterra. Sotto piazza Emanuele Filiberto, un tempo denominata anche "contrada delle ghiacciaie", si trovano i resti delle ghiacciaie pubbliche utilizzate in passato per la conservazione degli alimenti. Si tratta di ampi locali, un tempo tre grandi ambienti, a cui accedevi attraverso delle rampe elicoidali dai numeri civici 13 e 15 e che ancora oggi consentono di scendere nei quattro piani interrati. Le ghiacciaie, sono forse risalenti alla fine del Seicento e l'acqua derivava dal vicino fiume Dora. Ancora in uso nel 1845, l'architetto Barnaba Panizza ne progettò il loro ampliamento. Nel 1887 le ghiacciaie vengono spostate al fondo di via delle Orfane, con ingresso al civico 32 e le vecchie in parte demolite o trasformate a depositi dei carretti del mercato di porta Palazzo. Su questa piazza insistono diversi caratteristici locali, trattorie, ristoranti etnici, gelaterie e un ristorante vegano. Quest'ultimo locale, particolarmente apprezzato, era ai tempi di frequentazione della Hogwarts torinese, il ritrovo del sottoscritto con alcuni amici e conoscenti come il Professor Remus John Lupin e Theodore Nott.
Quando transito per via Bonelli, molti cose mi vengono in mente, questa strada è stretta, i casamenti molto alti non le permettono di avere molta luce, ha anche una conformazione tutt'altro che lineare, eppure ha un fascino particolarmente enigmatico. La strada è dedicata ad Andrea Bonelli, un illustre entomologo cuneese, emerito professore dell'Accademia delle Scienze. Ma quando si chiamava Contrada Pusterla e poi via Fornelletti, (così chiamata perché c'erano i forni dove si lavorava la seta) al civico 2 vi viveva un impiegato comunale, il cui lavoro doveva svolgerlo da incappucciato. Vi abitavano infatti i boia cittadini, la casa c'è ancora, credo che il portone sia sempre lo stesso ma il boia non più. La via dava ricetto ai ladri, ai mendicanti alle peripatetiche della città e si affittavano case ad uso di postribolo. L'ultimo boia che vi abito fu, Pietro Pantoni, pare fosse tutto casa e lavoro e che vivesse chiuso nel suo appartamento, senza quasi mai uscire. Si racconta che l'unico suo amico fosse un certo Caranca, il becchino di Rivarolo.
Ai boia sabaudi erano riservati antichi privilegi come poter avere un banco riservato e staccato dal resto dei fedeli, nella vicina chiesa di sant'Agostino e sempre in quella chiesa, sotto il campanile potevano poi trovare sepoltura. Era un mestiere ben pagato, ma sottoposto ad una gogna sociale piena di riti scaramantici, come ad esempio era il modo in cui gli veniva consegnato il pane, ossia capovolto, e sopra alla pagnotta veniva tracciata, prima della cottura, una croce. Si narra che questo spregio non fosse ben accetto dal boia che se ne lamento con il duca, tanto che nel 1391 il duca Amedeo VIII intervenne dichiarando che o si accettava per cliente il boia o si diventava clienti del boia. Non so se è vero, ma si dice che i panettieri iniziarono a sfornare un pane a forma di mattone, così da non avere un lato da determinarsi come sopra o sotto, questo pane divenne il pan carré. Un editto del 1575 stabiliva un preziario per i servizi del boia, si andava dai compensi, oltre alla paga che era il doppio di quella di un insegnante, che erano di 21 lire per un'impiccagione semplice alle 16 lire per appiccare il fuoco ad un rogo, o a degli extra fino alle 36 lire in caso di squartamento cruento. Inoltre percepiva 24 lire di indennità di grasso, ossia per impedire al boia di estrarre e vendere il grasso del cadavere, molto ricercato per usi "medicinali" e chissà cos'altro.
L'esecuzione di un condannato, richiamava un foltissimo pubblico e veniva per questo costruito una vera e propria sceneggiatura. Si partiva dal Confortatorio del carcere, dove incontrava un sacerdote per la confessione dei peccati e assoluzione, in questa occasione il boia nel comunicare al condannato che era giunta la sua ora, chiedeva il perdono al condannato di doverlo impiccare, affinché non avesse rimorsi di coscienza e non avesse poi problemi con san Pietro, una volta giunto alle porte del paradiso. Il condannato caricato su un carro, vestito con un camicione bianco, scalzo ed in piedi, con al collo il laccio e le mani legate (i parricidi venivano incappucciati),attraverso via Dora Grossa, l'attuale via Garibaldi, giungevano al luogo del supplizio accompagnato oltreché dalle guardie, dal boia e dal prete, dai membri della Confraternita della Misericordia. Questi ultimi erano tutti rigorosamente incappucciati e tutti recitanti il Miserere. Erano previste delle soste, come davanti alla chiesa dei santi Martiri, per la benedizione, un'altra a santa Croce in contrada Italia, l'attuale via Milano, l'ultima davanti alla forca, alla ghigliottina o alle cataste di legna pronte per il rogo. Sul patibolo il Sindaco della Misericordia bendava gli occhi al condannato, il prete ripeteva l'assoluzione e dava da baciare il Crocifisso. I luoghi del supplizio sono variati nel tempo: piazza Castello e piazza san Carlo erano il luogo in cui si abbrucciavano i condannati al rogo, mentre in piazza Carlo Emanuele II, più nota come piazza Carlina, ai tempi di Napoleone era installata la ghigliottina, in uso anche alla Cittadella, in piazza delle Erbe, ora piazza Palazzo di Città, in piazza Giulio, e in aperta campagna in zona Valdocco, che da allora in poi sarà battezzato il Rondò della Forca era comune d'uso la forca. Poi il cadavere del condannato veniva sepolto, o meglio gettato in un pozzo in san Pietro in Vincoli, il cimitero degli impiccati. Prima del 1777 invece venivano sepolti in un pozzo nella chiesa della Misericordia. Si racconta che dopo l'impiccagione il popolino si gettasse avidamente sulla corda della forca, quale oggetto portafortuna e per trarne auspici per il gioco del lotto. Spesso, avvenuta l'esecuzione, la folla lanciava sassi contro il carnefice in segno di disprezzo. Insomma gioie e dolori di un mestiere come un altro. Compito sicuramente ingrato del boia, se non avesse svolto il suo compito con rapidità e precisione, in caso degli impiccati, era quello che se il condannato fosse apparentemente morto e si riprendesse mentre era accompagnato al luogo di sepoltura, al boia spettava il compito del colpo di grazia che era quello di piantare un grosso chiodo di 30 centimetri a sezione quadrata nel cranio del condannato. Meno atroce, spesso, era la condanna per le donne, alle quali veniva legate le mani e legato una pesante pietra al collo e gettate in Po. Comunque, come nei romanzi qualche condannato si salvala in extremis, come ci racconta Luigi Cibrario, magistrato, senatore, massone e storico. Costui ci narra come il primo settembre 1704, una lunga processione, preceduta da uno stendardo con dipinto uno scheletro con il motto "Manus Domini tetigit me", uscì dal Maschio della Cittadella.
Erano i confratelli della Misericordia, che nel loro saio nero ed il volto coperto dal cappuccio dello stesso colore, intonando le preci degli agonizzanti, accompagnavano Bernard de Corbilly. Costui sostenuto da alcuni religiosi, tra due file di guardie era diretto sul palco eretto poco lontano dalla Cittadella dove incombeva la ghigliottina. Corbilly, comandante del forte di santa Maria di Susa, era stato ritenuto colpevole di essersi arreso ai francesi. Mentre saliva i gradini, appoggiandosi ai religiosi, e il boia gli si faceva incontro, giungeva al gran galoppo, il maggiore Foschieri giunto in tempo per portare la grazia al condannato.
Bernard de Corbelli, venne riaccompagnato nella Cittadella dallo stesso corteo di prima, questa volta i confratelli della Misericordia cantavano il "Te Deum". Il Boia Pietro Pantoni era comunque figlio d'arte, infatti il padre Antonio era il boia dello Stato del vaticano, ed anche suo fratello era boia del ducato di Parma. D'altra parte era difficile per il boia una vita sociale propria e per i propri figli, tanto che quest'ultimi, alla fine seguivano la carriera del padre. Il suo primo lavoro, Pietro Pantoni, lo svolse a Modena, infatti fu lui il boia che impicco il patriota Ciro Menotti. Scrisse il cronista Sossai il 26 maggio 1831: "Dalle ore 6,30 alle 7,30 sul bastione davanti alla destra della Cittadella vengono tratti a morte primo il Dottor Vincenzo Borelli, poscia in altra forca vicina Ciro Menotti…". Tra l'altro al Menotti si negò l'uffizio del tirapiedi rendendo il supplizio durò lento e atroce. Ciro Menotti maturò fin da giovane forti sentimenti patriottici, affiliato alla Carboneria, tenne frequenti contatti con gli esuli italiani con l'obiettivo di liberare il ducato di Modena dal giogo dell'Austria. Ciro Menotti, rivoluzionario impavido ed eroe romantico, divenne nella coscienza degli italiani un grande patriota: fu infatti considerato un precursore dell'intero Risorgimento, tanto che Giuseppe Garibaldi volle usare il suo cognome come nome per il proprio figlio primogenito. Insieme a Menotti venne impiccato il notaio, reo quest'ultimo di aver redatto l'atto di decadenza di Francesco IV dopo la sua fuga dal ducato e per questo condannato a morte. Il Boia di Vincenzo Borelli fu il fratello di Pietro; Giuseppe Pantoni.
Il Pantoni professò la sua attività a Torino dal 1831 al 1865 e nonostante la sua costretta misantropia riuscì persino a sposarsi. Il suo matrimonio venne celebrato nel 1846, ovviamente fu officiato Giuseppe Cafasso, il santo degli impiccati.
E se la popolazione non amava molto intrattenere relazioni con il boia e la sua famiglia, nemmeno le autorità erano contente di averci a che fare. Ad esempio era particolare sistema di pagamento dello stipendio del boia. Si è scritto che il presidente della Corte d'Appello indossando un paio di guanti nuovi, firmava il modulo di pagamento e lo gettava sul pianerottolo, poi bruciava guanti e penna. L'usciere con delle lunghe pinze lo prendeva e lo gettava nella tromba delle scale, al fondo delle quali il boia lo attendeva. Il boia inoltre era uso vestirsi con un mantello rosso per impedire che il sangue, eventualmente schizzato durante un'esecuzione, potesse impressionare la gente. Curioso sapere che il Pantoni scrisse ai suoi superiori due missive in cui auspicava l'abbandono della forca a favore della ghigliottina "per umanità dei poveri pazienti...".
Fu un carnefice che non ebbe molta fortuna, sia perché non riuscì ad avviare alla professione di famiglia, il nipote Luigi, che aveva fatto venire da Parma, risultandone incapace, ma fu oggetto di dileggio per via di sua moglie. Infatti sua moglie Matilde era considerata donna dai liberi costumi, costringendo Piero a trascinarla in tribunale facendola dichiarare "donna pubblica". Nella sua carriera Pietro Pantoni giustiziò 127 persone, nello steso periodo il famoso boia di Roma "Mastro Titta", giustizio 232 individui.
La strada non è molto larga, con passo veloce e sguardo rivolto verso terra, mi viene incontro senza avermi visto Peter Minus soprannominato Codaliscia, uno dei miei ex più vicini collaboratori che tradì la mia fiducia, nei modi più vili. A differenza Peter Minus della Rowling, quello torinese è alto, giovane, carnagione tendente allo scuro, occhi castani incorniciati da occhiaie e rughe a zampa di gallina ai lati, un grosso e lungo naso, adunco che con le narici larghe forma una lancia, che sovrasta una grande bocca dalle rosee labbra e con gli incisivi sporgenti. Il viso è allungato, le ampie rughe che lo solcano lo fanno apparire più anziano. Fronte alta e spaziosa e capelli nero corvino, tagliati cortissimi, e due grandi orecchie a sventola. Quando sorride l'aspetto del viso e della bocca ricordano vagamente quello di Joker, personaggio malvagio di Gotham city. Vorrebbe essere un metrosexual, ha sempre fatto di tutto per apparire ciò che non è. Come nel romanzo Peter Minus anche nella Hodgwarts torinese tradisce la fiducia di tutti, accusando molti babbani di aver compiuto dei reati che nella realtà non furono mai compiuti. Una volta lasciata la Hogwarts torinese continuò a servire il male oscuro. Codaliscia, era un ragazzo superbo, con evidente e radicata convinzione della propria superiorità, reale o presunta, mistificata da atteggiamento tutt'altro che altezzoso senonché distaccato e un ostentato disprezzo verso gli altri. E come scrive scrittore e critico letterario statunitense Henry James "Si è orgogliosi quando si ha qualcosa da perdere e umili quando c'è qualcosa da guadagnarci". Persona invidiosa come tutti i mangiamorte, in cui la felicità per il bene altrui è percepito come male proprio, mistificando il tutto in una ipocrita filantropia. Mi ingannò talmente bene da non comprendere quanto fosse lussurioso, portato ad un'irrefrenabile concupiscenza del piacere fine a se stesso. Pensare che ne fui avvisato da diverse persone, tra cui Ninfadora, ma non me ne resi conto fintanto che io stesso non caddi in un suo inganno. D'altra parte, essendo Codaliscia, un mangiamorte accidioso incapace di fare scelte durature non poteva che tradire un'amicizia di comodo per un'altra, sempre alla ricerca di forti emozioni sempre diverse, essendo un infelice perenne, nascosto da un falso sorriso fotografico. Come mi scorge, invece di venirmi incontro, essendo anche un animagus, si trasforma nell'animale a lui più consono; un ratto, infilandosi sotto la porta della casa del boia. Comportamento quanto normale per Codaliscia, che tra l'altro mi evita un sorriso opportunista, felice di non aver più niente a che vedere con tali figuri, permettendomi di raggiungere il più rapidamente possibile il mio luogo d'appuntamento. Mi sovviene una frase letta qualche tempo fa e che più o meno diceva: Non bisogna mai pentirsi di aver fatto del bene a persone che si sono allontanate e non hanno capito, perché col tempo senza alcun dubbio saranno coloro che ci rimpiangeranno. Frase quantomai calzante, al comportamenti del mangiamorte appena incontrato.
Fine XLVI parte.