Blog di Dante Paolo Ferraris

  • Aumenta dimensione caratteri
  • Dimensione caratteri predefinita
  • Diminuisci dimensione caratteri
Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Humanity

E-mail Stampa PDF
humanityL'idea della cooperazione internazionale nasce intorno al 1960 quando molti Stati, soprattutto quelli africani, raggiungono l'indipendenza rappresentando sostanzialmente la fine dell'epopea del colonialismo europeo.
Circa 400 anni di colonialismo lasciano nelle ex colonie un territorio sfruttato, dove spesso l'imposizione di norme e leggi dei paesi colonizzatori hanno profondamente leso l'impianto di tradizioni radicate da millenni nelle popolazioni locali.
Se aggiungiamo a tutto ciò la grande piaga della schiavitù e lo sfruttamento smodato delle risorse naturali nei secoli di dominazione abbiamo un quadro esaustivo della situazione attuale.
Sono ormai 50 anni che il mondo occidentale ha avviato progetti di aiuto per lo sviluppo ed è forse il momento di fermarsi e riflettere sui passi compiuti per valutarne l'efficienza e l'efficacia dei risultati. Un modo per sostenere o ripagare gli ex territori sottomessi o come io credo per sentirsi come Ponzio Pilato e così lavarsi la coscienza.
Io non sono uno specialista della materia, sono solo un libero pensatore e mi soffermo solo su dichiarazioni autorevoli di persone che hanno vissuto sulla loro pelle i progetti della cooperazione internazionale e pongo come punto di partenza quanto ha affermato Joseph Ki-Zerbo, filosofo e storico africano, scomparso nel 2006: " Aiuta solo l'aiuto che aiuta ad eliminare l'aiuto". Mai parole più sagge furono enunciate, ma purtroppo pare che le cose non siano andate esattamente come si sperava o come ancora ci raccontano se Dambisa Moyo (1), economista dello Zambia nata nel 1969 e attuale dirigente della Banca Mondiale trae queste conclusioni: "Gli obiettivi umanitari indicati come possibili dal Millennium development goals per il 2015 appaiono irraggiungibili. Tra il 1981 e il 2002 il numero degli africani che vivono sotto la soglia della povertà è raddoppiato. L'assistenza senza limiti offerta ai governi africani ha aumentato la dipendenza economica, incoraggiato la corruzione e in definitiva perpetuato la povertà".
Questo ci porta a riflettere come i nostri soldi, se non ben indirizzati, possano solo aumentare il danno già arrecato, costruire illusioni di un benessere effimero, non potendo nemmeno più credere, seduti comodi nella nostra poltrona di casa, di esserci lavati la coscienza.
D'altra parte i paesi più ricchi del mondo sono quelli che sono da tempo "proprietà" di nuovi sistemi oligarchici, dove le mafie imperversano e fanno affari d'oro con i paesi in via di sviluppo.
Come è possibile pensare, nel villaggio globale del nostro secolo, che paesi come la Repubblica Democratica del Congo, una delle Nazioni potenzialmente più ricche del mondo per la consistenza dei suoi giacimenti di diamanti e del preziosissimo coltan abbia la più alta percentuale di persone malnutrite al mondo e uno dei più alti tassi di mortalità infantile, per non parlare della Nigeria con i suoi pozzi petroliferi e un bassissimo reddito pro capite.
In quale modo i nostri progetti, quelli finanziati dallo Stato, anche attraverso le ONG sono immuni ed estranei a qualunque sistema di compromesso?
Io sono fortemente convinto che occorra una nuova road-map delle politiche umanitarie, dove non si spacci il bombardamento aereo come intervento umanitario, dove non si costruiscano ponti in luoghi senza strade, dove occorra aiutare a crescere le popolazioni locali, dando loro gli strumenti in grado di essere utilizzati, dove non serva costruire palazzi di acciaio e vetro al fianco di capanne di paglia. In sostanza è necessario costruire una sana cooperazione internazionale che si inserisca nei sistemi paesi senza aver l'obiettivo di adattarli agli usi occidentali, solo per dimostrare di aver fatto qualcosa.
Poniamoci idealmente nelle condizioni di vita di quel cameriere o di quelle donne di servizio nei più bei resort delle spiagge africane, che ci vengono a riverire e ad assecondare prostrandosi ai nostri piedi per permetterci di godere al meglio del loro mare e del loro sole e che poi rientrano mesti nelle casette di paglia ad accendere il fuoco sotto l'unica pentola che hanno con una manciata di riso quale loro unico pasto. Non è cosi che possiamo pulirci la coscienza, sentirci come i soldati "alleati" che lanciavano le caramelle ai bambini dalle torrette dei carri armati, dopo la nostra guerra di liberazione.
Maggiore deve essere l'investimento nell'educazione, nell'accesso all'acqua, nell'accesso ai farmaci senza costruire strade nel deserto non prima di aver garantito uno sviluppo equilibrato e sostenibile.
Iniziamo a chiedere il rendiconto di dove vanno i nostri soldi, di come vengono spesi, di quanti effettivamente arrivano all'utilizzatore finale e quanti finiscono nelle spese di gestione e in burocrazia. Un esempio per tutti è Medici senza frontiere. E i loro costanti report anche economici.
Di più e meglio si può fare anche spendendo meno. L'importante è crederci.



(1) autrice de "la carità che uccide"