Con Stefano entriamo in chiesa, a croce latina e a tre navate scandite da robusti pilastri cruciformi. Si percepiscono i pesanti interventi del XVI secolo quando fu rialzato il pavimento riducendone lo slancio verticale delle navate per ricavarne la cripta per la sepoltura delle famiglie gentilizie. I tesori conservati sono molteplici, tra i quali il trittico raffigurante Madonna in trono col bambino fra i Santi Gottardo e Giacomo attribuito a Daniele De Bosis del 1496. Merita attenzione anche la tavola della Madonna con bambino tra i Santi Abbondio e Gerolamo, con nella predella le storie di Sant'Abbondio del vercellese Boniforte Oldoini del XVI secolo. Opere lignee degne di note sono il coro del XVII secolo. Anche i paramenti sacri hanno storie interessanti, come il paramento bianco in lamine d'argento custodito in chiesa, che fu ricavato da un abito appartenuto alla veneranda Clotilde di Borbone, regina di Sardegna. Sostiamo un attimo davanti all'urna contenente il corpo del beato Agostino da Biella o Agostino da Fango.
Agostino nacque a Biella dalla nobile famiglia De Fangi, nel 1432 entro nell'ordine Domenicano nel convento di San Domenico al Piazzo. Fu priore in diversi conventi come Soncino e Venezia dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, infatti vi morì il 22 luglio 1493. Uomo di grandi carità nel visitare gli infermi, nonostante per malattia il suo corpo fosse ricoperto da piaghe.
Gli sono attribuiti diversi miracoli e prodigi come aver resuscitato un bambino morto senza battesimo, o quello di aver soccorso un fanciullo piangente che aveva rotto una brocca piena di vino, ricomponendo la brocca e il suo contenuto. Ma anche la liberazione di una donna da cinque demoni, miracolo quest'ultimo, avvenuto a Vigevano. Si narra anche che talvolta, mentre era intento a pregare, si sollevasse un cubito da terra. La misura del cubito era circa mezzo metro e corrisponde idealmente alla lunghezza dell'avambraccio a partire dal gomito fino alla punta del dito medio. Il suo culto si diffuse rapidamente e nel 1502 il convento di Soncino ne chiese una reliquia, ottenendo l'indice della mano destra. A Biella fu eretto un altare nella chiesa di San Domenico, ottenendo come reliquia l'osso dell'avambraccio sinistro e un'altra reliquia fu destinata alla cattedrale di Biella. Il 5 settembre 1872 fu beatificato da Pio IX. Morto nel convento di San Domenico a Venezia, l'urna con il suo corpo il 13 settembre 1972 fu portato da Venezia a Biella e il 23 giugno 1973 trovò la sua collocazione definitiva nella chiesa parrocchiale di San Giacomo al Piazzo.
Usciti dalla chiesa, entriamo quasi furtivamente nell'androne del cinquecentesco Palazzo Gromo di Ternengo che si specchia sulla piccola piazzetta di San Giacomo. Sbirciamo lo splendido cortiletto del XVIII secolo e da lontano rubiamo una rapida immagine dell'ancora più bella vista sul secondo cortile del XVI secolo. La facciata del palazzo è suddiviso in quattro ordini su cui si inserisce il portale con un portone a due imposte e sovrastato da un balcone.
La denominazione "Ternengo" è dovuta all'acquisto del feudo di Ternengo da parte di Pietro Gromo, consigliere di Stato nel XV secolo.
All'angolo di piazza della Cisterna con corso del Piazzo, si affaccia la Casa dello storico Biellese, Antonio Coda (1614-1670), fino a pochi anni or sono utilizzato come carcere giudiziario. Ancora oggi, nonostante sia stato trasformato in ostello per la gioventù, le sue finestre sono protette dalle massicce inferiate delle celle.
Subito all'angolo di Casa Coda si apre vicolo Bellone, dove al civico 3 vi si trova la Sinagoga; non vi e nessun elemento architettonico che evidenzi la presenza del tempio ebraico. Proseguendo brevemente per il corso, deviamo brevemente per costa San Sebastiano per vedere la "casa del giardiniere". Una proprietà dei Ferrero, in cui risiedevano il personale di servizio a palazzo Ferrero. Prende il nome "del giardiniere" perché nel cortile interno vi erano serre e verande. Sempre dietro al palazzo del vecchio Municipio vi è Casa Aventura con pregevoli fasce in cotto e portico ornato di capitelli. Il nome deriva dai suoi proprietari, Aventura, che l'hanno abitata dal 1727 fino alla metà del XVIII secolo. Poco distante vi è l'antica porta medioevale detta della Ghiara. Su lato sinistro si possono ancora osservare antichi resti di merlatura. La porta veniva chiusa da pesanti saracinesche che ne garantivano l'inaccessibilità.
Proseguendo su corso del Piazzo troviamo il palazzo Ferrero La Marmora. Il palazzo presenta una facciata tardo settecentesca, opera di Filippo Castelli, divisa in cinque moduli. Quello centrale è alleggerito da un balcone e da un timpano con il blasone con aquile e leoni.
Sulla facciata una lapide ricorda i prestigiosi personaggi biellesi che vi risiedettero.
Fin dalle origini, XIV secolo, il palazzo è stato di proprietà dei Ferrero. La discendenza della famiglia Ferrero è di origini molto antiche nel biellese, già nel XIII secolo troviamo un Ferrero tra i Clavarius di Biella. Noi partiamo a ricordare Besso di Stefano Ferrero, da cui discendono i due rami principali della famiglia. Infatti dai figli Sebastiano e Gian Enrico hanno origine le casate dei Ferrero marchesi di La Marmora e dei Ferrero principi di Masserano. Da Sebastiano prende avvio il ramo dei Principi di Masserano, che si succede per 14 generazioni e si estingue nel 1833; mentre da Gian Enrico discende il ramo dei Marchesi della Marmora che esiste ancora oggi. Una lapide ricorda quattro fratelli, figli di Celestino Ferrero della Marmora (1745-1805) e di Raffaella, figlia del marchese di Bersezio. Il padre Celestino, marchese della Marmora, fu consignore di Borriana, Beatino e Pralormo e dopo aver servito in armi Casa Savoia, con l'armistizio di Cherasco, si ritirò a vita privata a Torino, nel suo palazzo nell'attuale via Maria Vittoria, dove vi morì.
Quattro sei sedici figli, avuti dalla coppia segnarono profondamente la storia del XIX secolo. Infatti a Torino nacque il 29 marzo 1788 il secondo nato ed il primo dei maschi; Carlo Emanuele. Padrino del piccolo figlio di Celestino fu il futuro re Carlo Emanuele IV e della sua consorte Clotilde di Borbone di Francia, sorella minore di Luigi XVI.
Costui, avviato alla carriera militare, partecipò come sottotenente nella fanteria imperiale napoleonica, poi nei Cacciatori a cavallo e ancora nella Guardia imperiale a tutte le grandi battaglie dell'Imperatore Francese. Reintegrato con la restaurazione nell'esercito sardo, fino a raggiungere il grado di Tenente Generale. Fu addetto alla casa di Sua Altezza il principe di Carignano, il futuro re Carlo Alberto, ne diventò confidente e lo seguì in battaglia nel 1848-1849. Carlo Emanuele muore a Torino nel 1854 dopo due anni di malattia e viene sepolto nella cripta di famiglia a San Sebastiano a Biella. Alberto La Marmora è il terzo nato e secondo dei maschi di Celestino e Gabriella, nato il 7 aprile 1789, militare di carriera come Ufficiale del 1° Reggimento di Linea, poi passa all'Armata d'Italia agli ordini di Beauharnais. Fatto prigioniero nella campagna di Russia viene poi reintegrato come Luogotenente dei Granatieri Guardie e promosso a Capitano. Dispensato da "ulteriori servizio" per il sospetto di aver manifestato pubblicamente per il sistema costituzionale, si ritira in un "confino volontario". Rientra in servizio nel 1824, raggiungendo il grado di Colonello nello Stato Maggiore, diventando anche Maggior Comandante la scuola di Marina di Genova. Nel 1849 re Vittorio Emanuele lo nomina Comandante dell'isola di Sardegna. Fu anche senatore del regno dal 1848 al 1854 ed è noto come studioso e scienziato: le sue memorie vanno da studi statistici, a studi ornitologici, geografici e geologici di Sardegna. Non si sposò e morì a 74 anni nel 1863 a Torino; riposa a Biella nella cripta di famiglia.
Alessandro Ferrero della Marmora nasce a Torino il 27 marzo 1799 ed è l'ottavo figlio e terzo dei maschi di Celestino e Raffaella. Nel 1809 diventa paggio alla corte del principe Camillo Borghese. Nel 1814, a quindici anni, entra nell'esercito piemontese come sottotenente sovrannumerario ed effettivo nel 1815 dei Granatieri Guardie partecipando a numerose battaglie. Nel 1831 presenta il progetto del Corpo dei Bersaglieri che viene istituito dal re nel 1836. Nel 1844, Alessandro è colonnello dei Bersaglieri e partecipa alla prima guerra d'indipendenza. Durante la battaglia sul ponte di Goito, a 49 anni, un proiettile gli spacca la mascella. Sempre nel 1848 viene promosso maggior generale, nel 1849 diventa Capo di Stato Maggiore e Ispettore dei Bersaglieri. Nel 1852 è comandante di Divisione militare di Genova e Vittorio Emanuele II lo promuove a luogotenente generale. Nel 1855 viene inviato in Crimea, al comando della seconda divisione del corpo d'armata, dove si trovava il fratello Alfonso, quale Comandante supremo del contingente del Regno di Sardegna in Oriente.
Insieme ai due fratelli, vi erano altri membri della famiglia La Marmora, tra cui la moglie di Alfonso, Giovanna Bertie Mathew e il nipote Vittorio, figlio del fratello Carlo Emanuele, che come ufficiale di Marina, comandava il porto di Balaklava. Raggiunta la Crimea, Alessandro viene colpito dalla malaria e vi muore nella notte tra il 6 e 7 giugno 1855. Il corpo di Alessandro La Marmora fu sepolto poco distante dall'accampamento, ma poi sarà traslato nel cimitero della marina di Balaklava. Successivamente la salma verrà rimpatriata in Italia tra molti onori nel 1911. Alessandro è sepolto anch'egli nella cripta di famiglia nella basilica di San Sebastiano.
Alfonso La Marmora invece è il dodicesimo figlio ed il settimo dei maschi di Celestino e Raffaella. Anche lui nasce a Torino il 18 novembre 1804. La sua carriera militare inizia a 12 anni all'accademia militare di Torino fino a raggiungere i maggiori gradi militari.
Il suo esordio in battaglia è a 44 anni nella campagna d'Italia 1848-1849 ottenendo la nomina a Luogotenente generale, per aver contribuito in maniera determinante alla vittoria di Pastrengo e per aver protetto il re Carlo Alberto durante l'assedio a Milano. Nel 1849 aveva raggiunto i massimi gradi dell'esercito sabaudo e verrà inviato a Genova a sedare una rivolta antimonarchica; attività che gli varrà il soprannome di "cannoneggiatore del popolo". Inviato a 55 anni come Comandante supremo del contingente di 18000 uomini; Alfonso rientra in Italia, omaggiato come un eroe. Nel 1860 gli viene affidato il Corpo d'armata di Milano e nel 1861 viene inviato a Napoli come prefetto e comandante generale delle truppe stanziate nell'Italia meridionale, nel 1866 assume l'incarico di Capo di Stato Maggiore dell'Armata del Mincio.
Dopo la perdita della terza guerra d'indipendenza, l'opinione pubblica gli attribuisce buona parte della responsabilità della sconfitta. Il Generale si difenderà dalle accuse con diversi scritti ma alla fine lascia l'incarico di Capo di Stati Maggiore. Accetta poi di guidare per un anno il dipartimento di Firenze prima di ritirarsi a vita privata. Accetterà unicamente la luogotenenza di Roma e della Provincia di Roma dopo il 20 settembre 1870. Occuperà il resto della vita occupandosi di opere benefiche. Morirà il 5 gennaio 1878 nella sua casa di Firenze, assistito dal nipote Tommaso, figlio del fratello Carlo Emanuele. La salma verrà trasferita nella cripta di famiglia nella chiesa di San Sebastiano a Biella. Fu anche Ministro della guerra tra il 1849 e il 1859, Presidente del Consiglio dei Ministri nel 1859. Nel 1864 il Re lo chiama nuovamente a presiedere il governo e come ministro sia della Marina che degli Affari Esteri. Fu proprio sotto il suo mandato governativo che i bersaglieri, fondati da suo fratello Alessandro, conquisteranno Roma.
Ma se il fratello è ricordato come il fondatore del corpo dei Bersaglieri, il fratello Carlo Emanuele è legato all'attuale corpo dei Corazzieri, in quanto questo corpo deriva dal corpo delle Guardie del Re, di cui fu il primo comandante, ad Alfonso invece è attribuito la fondazione del corpo di Artiglieria a cavallo, le Voloire; queste batterie a cavallo rendevano più snelle il movimento delle artiglierie durante i combattimenti.
Quest'ultimo, rimasto vedovo, lasciò parte del suo cospicuo patrimonio, pare su consiglio dell'amico Quintino Sella, a Biella e a Torino. In particolare a Biella lasciò al Comune una rendita di 10 mila lire annue per aiutare gli operai vittime di infortuni sul lavoro, un fondo per la costruzione dell'Opera Pia La Marmora in favore i artigiani e operai poveri e stanziò una somma per la costruzione del mercato coperto e della rete dell'acquedotto borgo di Biella.
Una cosa che mi ha sempre incuriosita è il perché troviamo i fratelli indicati come La Marmora o talvolta Lamarmora e raramente indicati con il loro reale cognome, ossia Ferrero.
Infatti la dicitura completa del titolo della famiglia è marchese Ferrero della Marmora, dove Ferrero è il cognome e della Marmora indica il feudo su cui Gian Enrico Ferrero nel 1610 riceve il titolo marchionale. In Piemonte era consuetudine della nobiltà che al nome di battesimo non facesse seguito il cognome ma direttamente il toponimo a cui era legata la famiglia. Consuetudine derivata dalla aristocrazia francese. Anche nel caso dei Ferrero della Marmora sempre più spesso veniva omesso il cognome a vantaggio del toponimo. Frequentemente Carlo Emanuele Ferrero si firmava Carlo della Marmora. I due fratelli più famosi fecero cadere anche il partitivo "della" usando solo sia La Marmora che Lamarmora.
Quindi ormai la famiglia viene così individuata anche se, quando gli eredi nel 1989 iniziarono a valorizzare il palazzo biellese del Piazzo lo indicarono come La Marmora.
Il palazzo ha un bellissimo giardino, con un fantastico belvedere su Biella Piano e conserva saloni riccamente affrescati, tra cui un bel salone da ballo con affreschi di Giovannino Galliari. Il salone ha una volte a botte, con al centro raffigurante Apollo, la morte, l'Italia e le muse. La cornice della volta è decorata con una balaustra in cui sono raffigurate le arti sotto forma di putti, mentre sopra le porte sono raffigurate le muse. Rimaniamo piacevolmente impressionati dalla sala dei castelli, dove sono raffigurati i vari possedimenti della famiglia Ferrero di Masserano e Ferrero della Marmora. Nella stanza dell'alcova, dove un tempo c'era il letto a baldacchino, ora fa bella mostra la tela di Pietro Ayres, opera del 1828 in cui è raffigurata la generazione della famiglia Ferrero La Marmora che fu protagonista del risorgimento. Ritratti di famiglia che si trovano come albero genealogico nella sala del camino. Dove sul grande camino di marmo rosa vi è il motto di famiglia "Non nomine nobis sed nomine tua gloriam". Nel salotto verde, con volte decorate a grottesche, fanno bella mostra altri importanti ritratti di famiglia, mentre nella seicentesca sala dei "Motti", la volta è affrescata con raffigurazioni di animali a cui sono abbinati dei motti.
Fine VIII parte.