La strada non è lunga per raggiungere Ovada, città natale di mia madre, in cui ritorno volentieri quando posso, anche solo per fare due passi tra le antiche strade del centro storico. Ma oggi il viaggio è riservato solo ad una personale golosità, voglio tornare a mangiare la farinata di ceci nei luoghi che frequentavo con i miei genitori. Non tutti i locali di un tempo esistono ancora, ma alcuni sono rimasti tali e quali.
Parcheggio agevolmente la mia auto e mi dirigo "da Vittorio", uno storico locale ovadese; il locale s'affaccia sulla pizzetta dei Cappuccini, all'angolo con via Cairoli. Una piccola e caratteristica piazzetta, in cui spesso si accalcano i clienti in attesa che vengano sfornate le teglie di farinata. Infatti il locale è molto piccolo, una piccola stanza con pochi tavoli e sedie di legno impagliate, un arredo scarno con una perlinatura che corre tutt'intorno alla stanza e acquarelli di paesaggi campestri appesi alle pareti. Tovagliette bianche, bicchieri in vetro, posate e tovaglioli di carta sono l'arredo di ogni desco. Un ampia vetrata invece ne fa l'accesso ad un'altra piccola stanza, dove un bancone di marmo, protetto da un vetro che corre per tutta la sua lunghezza accoglie i viandanti con i profumi della farinata appena sfornata.
Sono partito assai presto, proprio per trovare posto e potermi gustare in tranquillità la farinata, riuscendo così a sedermi giusto in tempo per un lauto pranzetto e appagare così la mia golosità. Verrò così rapidamente servito con una doppia porzione di "bela cauda- bella calda", come chiamava mio padre la farinata che accompagnerò con un buon bicchiere di dolcetto di Ovada.
La farinata di ceci, qualcuno la definisce erroneamente secondo me, focaccia di ceci, è originaria della Liguria, ma è molto diffusa anche in Piemonte e in Toscana; oggi è tra gli street food più apprezzati, ed ha alle spalle una storia antica e controversa.
A Ovada è di casa ed è un piatto tipico che ricorda la lunga permanenza della dominazione genovese sull'oltregioco. La sua storia, quella più accreditata ma altresì più fantasiosa, sempre a mio modesto parere, la fa risalire al Medioevo, in particolare alla battaglia della Meloria, che nel 1284 vide fronteggiarsi la flotta navale di Genova e quella della Repubblica marinara di Pisa e dove i genovesi sconfissero i pisani. Si racconta che nel corso di una tempesta o della battaglia, sulle galee genovesi si rovesciarono sacchi di ceci e barili d'olio, che si mescolarono all'acqua del mare imbarcata dalla nave a causa del maltempo o dalle brusche manovre di guerra. I ceci si ammollarono nell'acqua salata del mare e qualche barile di olio si sfasciò e unse l'ormai farina di ceci in una purea. Le provviste erano poche e i marinai genovesi diedero ai prigionieri pisani da mangiare l'informe miscuglio, che si rifiutarono di consumare, abbandonando la scodella sul tavolato della galera, salvo poi riprenderla quando i morsi della fame erano diventati irrefrenabili. Una giornata di esposizione al sole aveva cotto l'intruglio, trasformandolo in una pietanza appetitosa, quasi a una specie di focaccetta. La scoperta casuale interessò i genovesi che ne perfezionarono la ricetta cuocendola in forno a legna, e battezzandola per scherno agli avversari "oro di Pisa", altri invece fanno risalire la farinata con l'occupazione di Genova delle truppe romane. Considerato che la farina di grano era considerata un lusso, i soldati preparavano questa focaccetta con un impasto di farina di ceci e acqua, che poi cuocevano al sole, si racconta utilizzassero i propri scudi come "forni", cosa assai difficile visto che lo scudo, in latino scutum o clipeus, era di legno e non di metallo, poiché di metallico aveva soltanto i bordi che lo rendeva più resistente a colpi di spada e l'umbone ossia un elemento centrale sporgente dello scudo, quasi una grande borchia, posto in corrispondenza dell'impugnatura e serviva a proteggere la mano da frecce e colpi.
Oggi sono diverse le varianti della farinata diffuse lungo tutta l'area marittima tra la Maremma e la Costa Azzurra. Viene chiamata "socca" in Costa Azzurra, "a' fainà de ceixei" in dialetto genovese, "cecina" o "torta" nell'area nord della Toscana, la troviamo grazie ai marinai genovesi anche a Gibilterra come calentita, in Marocco come caliente o calentita, dove la ricetta prevede l'aggiunta di uova e grazie anche ai nostri emigranti in Argentina e in Uruguay come fainá dove, il 27 agosto, vi si celebra la "giornata della fainà". Talvolta la farinata è confusa con la Panissa, sempre di origine ligure, che si differenzia dalla prima perché priva dell'olio di oliva e cotta sul fuoco non in forno e servita tiepida, tagliata a cubetti e condita anche con olio e limone.
Sento che il "testo" ossia il tegame basso in rame stagnato che viene utilizzato per cuocere la farinata, il cui diametro può variare sino ad arrivare ad un metro e talvolta superarlo, è appena uscito dal forno a legna. Con mano agile e svelta la commessa taglia a fette con una paletta la farinata, sottile e dorata, che emana un inconfondibile odore, benché sia fatta di farina di ceci, acqua, sale e olio d'oliva. Se fossimo in qualche carruggio a Genova, questo tipico locale sarebbe definito una sciamadda. Ossia prima ancora che lo street food diventasse di moda, nel capoluogo ligure esistevano le sciamadde, antiche friggitorie e forni a ridosso del porto, dove si rifocillavano operai e marinai. Oltre alla farinata di ceci servita in cartoccio servivano anche cartocci di pesce fritto e gustose torte salate, frisceu (frittelle) salati e dolci. Una cucina povera fatta in locali che ancora resistono tanto da diventare caratteristici per la città della lanterna. Ma i genovesi non solo continuano a fare la farinata ma l'hanno addirittura registra come ricetta "ufficiale" nel 1477. Infatti una delle prime testimonianze scritte risale al 1477 quando, a Genova, un Legge disciplinò la ricetta della scripilita, nome antico della farinata, in cui veniva tassativamente vietato l'utilizzo di olio scadente perché un olio di ottima qualità è essenziale per un buon risultato.
Il piatto, ancora fumante mi viene servito, sono solito spolverarlo di pepe nere e ancora caldo gustarmelo lentamente, bevendoci sopra un bel bicchiere di Dolcetto di Ovada.
Concludo così la mia rimpatriata di vecchi ricordi; la farinata di allora è buona come quella che ho appena mangiato, è proprio vero che le cose buone sono quelle semplici e della tradizione dei nostri avi.