Ben presto il Kosovo rivendica l'indipendenza dalla Federazione Jugoslava, per potersi riunire all'Albania, ma il governo centrale jugoslavo risponde anche con oppressioni e si impone come potenza egemone nel nome di una unità nazionale.
Le proteste si trasformarono rapidamente in scontri di piazza e la situazione precipita a partire dalla fine degli anni ottanta, con importanti ripercussioni politiche da parte del governo serbo guidato da Slobodan Milošević, che trova come prima azione di forza la revoca, nel marzo del 1989 della autonomia della provincia del Kosovo, risalente alla costituzione della Repubblica Jugoslava. Con questa revoca furono chiuse le scuole autonome in lingua albanese-kosovara, furono sostituiti tutti i funzionari amministrativi e insegnanti kosovari con serbi o persone fedeli al governo di Belgrado. Nel 1989 e 1990 insieme alle autonomie del Kosovo, furono cancellate dal governo di Belgrado anche quelle della Vojvodina.
Con la fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina nel 1995 tra i kosovari di religione musulmana, che erano in maggioranza, nacquero in breve tempo gruppi armati guidate da veterani di quella guerra, con intenti indipendentisti.
In Kosovo, dal 1989 al 1995, la maggioranza della popolazione d'etnia albanese mise in atto una campagna di resistenza prevalentemente non violenta sotto la guida del partito LDK e del suo leader Ibrahim Rugova, nome di battesimo Pjetër Rugova.
Tra il 1996 e il 1999, i separatisti dell'UÇK intensificarono gli atti di terrorismo contro le postazioni militari e contro le strutture statali Serbe. La polizia dapprima e poi le forze paramilitari estremiste serbe, iniziarono una dura repressione nei confronti dei kosovari. La guerra si espanse e la repressione dei serbi si fece più cruenta con molto spargimento di sangue, soprattutto di civili.
L'esercito serbo, in particolare milizie "irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi, compirono diverse azioni di rappresaglia sulla popolazione del Kosovo. Sono nella memoria di molti di noi le operazioni di cecchinaggio nei confronti dei civili fatte dalle milizie "irregolari" serbe. Lo scopo di queste azioni era stancare la popolazione e provocarne la fuga. La pressione, anche violenta, sulla popolazione kosovara da parte serba, provocò così la fuga dalle loro abitazioni e colonne di persone si riversarono verso la Macedonia e l'Albania.
La guerra del Kosovo fu l'ultima combattuta nei territori della ex-Jugoslavia e con la sua fine si concluse un decennio di conflitti regionali nei Balcani. Per la cronaca e per correttezza di narrazione, ci fu ancora un grande esodo, questa volta furono migliaia i cittadini di etnia non albanese, ossia serbi, montenegrini e gitani, che fuggirono dal Kosovo temendo e subendo rappresaglie albanesi. Successivamente al 1999 iniziò un periodo di pace e di sviluppo economico in gran parte del territorio, non ancora totalmente pacificato.
Furono purtroppo anni dove i crimini di guerra e i genocidi riempiranno intere tristi pagine di storia europea. Vicende storiche vissute sia in Croazia, che in Serbia che in Albania, ma anche nei vari campi profughi che furono allestiti in Italia. Ma concentriamo l'attenzione sulla Missione Arcobaleno ed in particolare su una parte della mia "missione".
Sono trascorsi venti anni dalla notte tra il 23 e il 24 marzo 1999, quando la NATO iniziò i bombardamenti aerei sulla Serbia. I suoi raid continuarono per 78 giorni, fino al 10 giugno, infliggendo danni per miliardi di dollari, distruggendo le strutture industriali, i ponti sul Danubio, i servizi essenziali del Paese, causando la morte di centinaia di civili. Le ripercussioni sul territorio kosovaro non si fecero attendere.
I molti kosovari, nel tentativo di sfuggire alle atrocità che stavano avvenendo sul proprio territorio, si misero in fuga, cercavano salvezza soprattutto in Albania. Per fronteggiare l'immenso esodo di profughi Kosovari in Albania e successivamente in Italia, l'allora governo italiano nel 1999, guidato da Massimo D'Alema, promosse la Missione Arcobaleno. Un'iniziativa di solidarietà avviata per sostenere i kosovari in fuga e garantire la sopravvivenza di migliaia di profughi.
Prendendo atto della vastità delle proporzioni dell'emergenza e considerato il timore di uno sbarco di migliaia di profughi in Italia, come era accaduto nel 1991, il governo italiano decise di intervenire, realizzando una grande Missione di soccorso a favore dei profughi kosovari. Governo che era già messo duramente alla prova nel cercare di gestire un'opinione pubblica che si mostrava, quantomeno scettica, nei confronti dell'interventismo militare italiano che aveva fornito alla NATO i cacciabombardieri per i raid aerei sulla Serbia.
La Missione italiana, anche in risposta all'allarme lanciato dall'UNHCR, preoccupato dall'entità dell'esodo di massa, era organizzata su diversi filoni d'azione. Uno di questi, quello di mio interesse, iniziava il 29 marzo 1999 con una delegazione, guidata dal Ministro Iervolino, in Albania, per stabilire i necessari contatti con le autorità locali, affinché si definissero le modalità per il trasferimento di risorse umane e materiali per il primo intervento direttamente sul territorio schipetaro.
L'obiettivo era l'installazione di Centri di accoglienza per ricondurre sotto controllo l'enorme esodo di rifugiati, giunto in poche ore in Albania e offrirgli l'assistenza necessaria. Le prime cifre dei rifugiati parlavano di 100.000 unità, assolutamente ingestibile per uno Stato in grande affanno e con l'industria e il commercio ancora da ricostruire dopo la liberazione egemonica dai governi totalitari.
Con il Governo albanese la delegazione italiana individuò aree pubbliche e private di insediamento dei Centri di Accoglienza, superando gli enormi problemi di localizzazione dovuti all'accessibilità, ai servizi pubblici e di viabilità come pure per le difficili condizioni ambientali.
Come priorità assoluta fu identificato l'allestimento di un centro di prima accoglienza nell'area di Kukes, luogo più vicino ai confini con il Kosovo e dove si erano concentrati una moltitudine di rifugiati stremati e spesso feriti. Mentre si organizzava la Missione italiana il 1 aprile, il numero dei rifugiati aveva ormai raggiunto quota 250.000 (stime UNHCR).
La Missione Arcobaleno poteva finalmente partire con il trasferimento a Kukes del personale necessario e dei materiali essenziali al primo intervento.
Nel giro di poche settimane furono resi operativi 18 Centri di Accoglienza per un totale di 35.740 posti direttamente gestiti dall'Italia, a cui si aggiunse la cogestione con l'UNHCR di altri 5 Centri di Accoglienza per altri 3.760 posti. Venne anche allestito un ospedale da campo che poteva ricoverare fino a 100 feriti ed ammalati.
I Centri di Accoglienza in Albania erano direttamente gestiti dal personale italiano del Dipartimento della Protezione Civile, con il supporto di personale volontariato di diverse Organizzazioni Non Governative. Altri centri erano gestiti direttamente da Organizzazioni Non Governative, che agivano in piena autonomia, ma sotto il controllo e direzione del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. Nelle operazioni sul campo in Albania, come nel supporto organizzativo in Italia, fu molto importante il ruolo e l'impiego di Regioni, Provincie e Comuni.
Costoro realizzarono il Campo delle Regioni a Valona e Kukes 2, impiegando 2.419 volontari e 1.170 professionisti.
A fine della Missione, il Dipartimento della Protezione Civile indicò in 6.211 il numero di volontari che avevano operato, in vari scaglioni, nei Centri di Accoglienza e nelle strutture operative della Protezione Civile in territorio albanese, senza i quali la Missione Arcobaleno non sarebbe stata possibile.
Non è invece calcolabile il numero di volontari che in Italia organizzarono la raccolta degli aiuti.
La solidarietà italiana non fu solo lo slancio di migliaia di volontari della Protezione Civile che prestarono la loro preziosa opera, anche tra mille difficoltà, nei Centri di Accoglienza allestiti in Albania dalla Missione Arcobaleno, ma anche nella gestione della raccolta e organizzazione del flusso di beni raccolti dalla generosità italiana.
Infatti fu realizzata in Italia, una rete di punti di raccolta di beni di prima necessità, vennero aperti 11 centri sul territorio nazionale a: Torino, Milano, Verona, Bologna, Ancona, Roma, Bari, Napoli, Catania, Palermo, Firenze che ammassavano e censivano il materiale proveniente da tutta Italia, e inoltre provvedevano a organizzare il trasporto di questi beni in Albania.
Sempre nell'ambito della Missione Arcobaleno fu realizzato nell'ex-base aeronautica militare di Comiso, in provincia di Ragusa, un centro di Accoglienza dove furono ospitati 6.000 profughi provenienti dalla Macedonia, ma di questa storia vi racconterò un'altra volta.
Fu altresì organizzato un ponte aereo per portare, negli ospedali italiani, quei rifugiati che necessitavano di interventi sanitari e che non potevano ottenere quell'assistenza sanitaria altamente specialistica in loco. A fine giugno 1999 si contavano 180 pazienti trasportati nei nosocomi italiani.
La Missione Arcobaleno arrivò ad assistere fino a circa 60.000 profughi, a fronte di un obiettivo iniziale dichiarato di 25.000.
La mia storia inizia con una telefonata.
Maria una mia stretta conoscente, diventata capo di Gabinetto della Regione, mi convoca per organizzare l'impegno della mia Regione in terra albanese, per portare soccorso alla popolazione rifugiata dal Kosovo. Rimango per un attimo sorpreso e meravigliato della sua richiesta e mentre mi espone il progetto a sommi capi, nella mia testa prendevano forma luci ed ombre di una nuova avventura. Ma soprattutto il dubbio era: Ne sarò in grado?
L'incontro ha luogo nella sede della Protezione Civile regionale, Maria presenta l'obiettivo, le difficoltà e l'impegno che la Regione Piemonte vuole mettere in questa organizzazione. Insieme al sottoscritto sono convocati eminenti responsabili dei maggiori enti e associazioni di volontariato. Si tratta di organizzare una missione con un imponente dispiegamento di risorse umane, oltre il centinaio e un lungo elenco di mezzi di trasporto e di merci necessarie all'allestimento di un centro di accoglienza.
L'incarico di organizzatore e responsabile di tutto ciò mi spaventava un poco, ma la consapevolezza di potermi affidare alla fiducia della struttura regionale, così come di poter contare sulla collaborazione di alcuni amici e conoscenti con cui ebbi modo di operare in altre emergenze, fugarono ogni mio timore.
Ormai mancavano pochi giorni alla partenza e le telefonate si facevano più intense, ma soprattutto avevo trovato un accordo con i servizi amministrativi regionali per la rendicontazione delle spese, che si sarebbero sostenute per impiantare e gestire il campo.
Il mio timore erano le modalità d'acquisto e di rendicontazione dei beni acquistati in Albania, che dovevano essere pagati in contanti e in moneta locale, ed era quasi impossibile ottenere una fattura o una ricevuta in un Paese che era in totale fase di ricostruzione economica e sociale. Dopo aver prelevato molte decine di milioni di Lire per la gestione della Missione, quando ero a pochi giorni dalla partenza, una telefonata arriva dal Dipartimento della Protezione Civile, che mette in discussione il tutto.
La richiesta è che il sottoscritto vada in Irlanda a rappresentare l'Italia in un esercitazione e successivamente raggiunga l'Albania e precisamente Valona, dove sarà collocato il Villaggio delle Regioni.
Nonostante i tentativi della presidenza della Regione per evitare questa complicazione, mi reco per una settimana circa in Irlanda per partecipare all'esercitazione europea, anche se la mia testa era già con i colleghi in partenza per Valona. Una parte di denaro che avevo ricevuto per le spese in Albania, lo consegnai a Marco, che diventerà così il capo missione e che successivamente andrò a sostenere.
Al rientro da Dublino, sono quasi subito su un treno che mi conduce a Brindisi, dove con un traghetto raggiunsi Valona. Il viaggio fu in compagna di Remo, un volontario del gruppo Comunale di Piovera che si era unito alla missione.
Il tragitto in treno fu tranquillo, ero solo preoccupato per tutti i soldi in contante che portavo con me! A Brindisi il caldo era afoso e la brezza marina non mi aiutò a sopportare tutto il carico di tensione, timori e bagagli compresi.
Ci imbarcammo su una motonave dal nome che pareva voler essere un auspicio per il popolo albanese: "Europa". Il traghetto era già datato ed era stato prima utilizzato dalla ex Federazione jugoslava come collegamento tra le isole, ora collegava le due sponde del Mar Adriatico.
Fu tutt'altro che un viaggio tranquillo, non tanto per il mare che era leggermente increspato, né tanto meno per le precarie condizioni in cui versavano le nostre cabine o il servizio di ristorazione tipicamente in stile albanese, ma per i miei nuovi compagni di viaggio. Infatti, i passeggeri che ci accompagnavano, erano quasi tutti uomini, camionisti o trafficanti e l'apparenza è vero che spesso inganna, ma scelsi di rimanere abbastanza guardingo.
Viaggiammo tutta la notte e la mattina vedemmo in lontananza la costa albanese; lentamente l'imbarcazione entrò in rada, le manovre per l'attracco furono lunghe e i motori sembravano soffrire di ogni singola operazione. Aiutata da dei trattori che entrarono in acqua in retromarcia, la nave, già afflitta dalle manovre e dal viaggio, fu indotta a seguirli dopo averla legata con delle robuste corde.
Il posto di controllo/dogana era una casotto di legno, collocato proprio sulla banchina del porto di Valona. Sembrava una di quelle garitte di un tempo, che si vedono ancora nei film o nei cartoni animati dove i militari fanno la guardia.
C'era un solo soldato con un mitra a tracolla; era un giovane ragazzo, non molto alto, di carnagione scura, occhi scuri e capelli neri. Indossava una bustina sulla testa, che faceva fatica a contenere il suo testone e una divisa rattoppata color nocciola, di misura più grande della sua taglia, che completava l'uniforme. Era un indumento di flanella pesante, quel ragazzo doveva soffrire molto il caldo, mandato a difendere un improbabile confine. Mi colpì la tracolla del mitra, ricavata da una corda di spago, tutto ciò rappresentava purtroppo bene il Paese che ci ospitò per un po' di tempo.
Superammo velocemente il posto di controllo, grazie anche alla presenza di Marco e Gino che vennero ad accoglierci.
Valona la città che ci ospitava, in albanese Vlora o Vlorë, aveva allora oltre 100.000 abitanti ed è ancora capoluogo della omonima prefettura. Fu antica colonia greca nel VI secolo a.C. con il nome di Aulona, e fu sede episcopale, ma anche se per breve tempo, capitale del neonato Stato albanese. Infatti fu proprio a Valona che il 28 novembre 1912 fu proclamata la dichiarazione di indipendenza dell'Albania.
L'aeroporto di Valona, dove stava per essere allestito il Villaggio delle Regioni, era poco fuori dalla città, le strade benché asfaltate o realizzate in cemento erano polverose e piene di enormi buchi. Molti di questi crateri lungo le strade di Valona si erano creati per il furto dei tombini, infatti la povertà della popolazione aveva favorito molti traffici illegali, un problema che non avevamo sottovalutato.
Benché l'aeroporto fosse stato costruito negli anni 50 del secolo scorso, Valona ospitò già dal 1 aprile 1916 la sede della 13ª Squadriglia da ricognizione e combattimento italiana che poi diverrà la 34ª Squadriglia, si susseguono anche l'11ª Squadriglia, l'8º Gruppo Volo, l'85ª Squadriglia e la 116ª Squadriglia. Durante la Seconda Guerra Mondiale la base aerea fu utilizzata dai Fiat C.R.42 della 364ª Squadriglia del 150º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre del 53º Stormo.
La lunga pista d'asfalto dell'aeroporto era stata pressoché ripulita, grazie anche al personale facente parte della colonna di soccorso piemontese, e alla presenza di autocompattatori e specialisti dell'AMIAT (Azienda Multiservizi Igiene Ambientale Torino) di Torino. Questo attento lavoro di pulizia permise a tutte le Regioni d'Italia, di predisporre il loro modulo d'accoglienza. Infatti, per fronteggiare l'eccezionale esodo delle popolazioni provenienti dalle zone di guerra dell'area balcanica, il 26/03/99 la Presidenza del Consiglio dei Ministri emanò un DPCM nella quale dichiarava lo stato d'emergenza sul territorio nazionale e con le successive Ordinanze del Ministero dell'Interno, venne ufficialmente avviata la "Missione Arcobaleno". Con questi atti si affidava ad ogni Regione il compito di allestire un modulo assistenziale logistico-sanitario su territorio albanese, in grado di accogliere 500 profughi ciascuno.
L'obiettivo del governo italiano, fu quello di costruire il "Villaggio delle Regioni" che a regime avrebbe dovuto ospitare più di 5.000 persone.
I profughi arrivavano al campo e dopo essere censiti e visitati dallo staff medico piemontese, diretto dal Dott Francesco Enriches, venivano suddivisi nelle varie tende, possibilmente per nucleo famigliare e luogo di provenienza, cercando di avere la massima attenzione in caso di presenza di anziani e bambini.
Il personale sanitario dovette intervenire su alcuni adulti che diedero segno di problemi psichici e anche con piccoli interventi chirurgici come nel caso di un ernia strozzata.
La tendopoli fu realizzata prevalentemente con tende modello MPI 73. Ogni tenda riusciva ad ospitare 4/6 persone e al suo allestimento aveva partecipato tutto il personale.
Con grande professionalità il campo fu dotato di servizi igienici con tanto di vasca Imhoff o fossa Imhoff, acqua potabile corrente, una mensa in grado di somministrare pasti caldi differenziati per età e secondo le esigenze mediche, ambulatorio sanitario, lavanderia, spazi di relazione, un campo giochi, una scuola per i bambini, una nursery, magazzini, un parrucchiere uomo/donna. Fu creata anche una falegnameria dove furono realizzati semplici arredi e suppellettili. Insomma tra mille difficoltà, si cercò di offrire ai rifugiati tutti i servizi necessari per rendere più agevole la loro presenza e per aiutarli ad allontanare dalle loro menti gli orrori della guerra.
La presenza nella colonna di uomini dell'A.E.M., Azienda Elettrica Torinese, come quella dell'A.A.M, Azienda Acque Metropolitane di Torino, fu di grande aiuto per l'allestimento degli impianti e la loro manutenzione.
Ben presto la cucina gestita dai volontari alpini e da altre associazioni, riuscì non solo a funzionare a pieno regime, ma anche a cucinare piatti tipici della tradizione kosovara.
Moltissime attività furono garantite dai Volontari del Corpo Anti Incendi Boschivi piemontesi e dai Vigili del Fuoco Volontari, coordinati dal loro Presidente Gino Gronchi.
I volontari e il personale sanitario furono fin da subito impegnati a fornire anche un assistenza morale e psicologica ai rifugiati, rivolta in modo particolare verso gli anziani e i bambini, intervento favorito dalla presenza di diversi interpreti.
La scuola fu affidata a insegnanti kosovari ed albanesi e il suo compito principale era tenere i bambini lontano dai pericoli e cercare di aiutarli a superare le paure che si erano portati con loro in fuga dalla guerra.
Erano circa 150 i bambini sotto i 14 anni presenti al campo, a cui bisognava garantire assistenza e fornirgli ogni cosa o attività che gli aiutasse a crescere, mentre circa una trentina erano i frequentatori della nursery.
La cosa che colpiva immediatamente dei bambini, era che dopo qualche giorno di timore e smarrimento, il loro sorriso, pian piano riprendeva ad essere presente ed era una conquista per tutti vederli per un attimo sereni. Nei loro occhi e in quelli velati degli anziani, si leggeva la paura, si potevano immaginare le privazioni subite e le atrocità a cui avevano assistito. Tutti eravamo impegnati a infondere loro sicurezza e rinnovata speranza. Questa era la "missione" più difficile, ma necessaria per dare un senso ai nostri sforzi e aiutarli a ritrovare un po' di serenità.
Gli stessi profughi kosovari furono progressivamente inseriti nei servizi del campo, quali cucina, distribuzione pasti mensa, pulizia del campo e vigilanza interna. Lentamente gli stessi profughi istituirono un consiglio di campo che, con l'aiuto dei volontari, redassero le regole di vita del campo.
Anche la distribuzione di merci e aiuti che arrivavano dall'Italia, nonostante costoro fossero privi di tutto, e l'ottenere un semplice spazzolino da denti e il dentifricio pareva una conquista ed un ritorno alla civiltà e alla normalità, furono tranquilli e non produssero le temute liti e discussioni davanti al magazzino.
Durante la mia permanenza fu possibile anche organizzare delle partite di calcio e di pallavolo (l'Italia ha sempre perso), oltre ad uno spettacolo teatrale. Alcuni volontari furono impegnati anche nella direzione centrale del campo in qualità di informatici e riuscirono a dotare ogni singolo Kosovaro di un tesserino d'identità munito di fotografia.
I seri e veri problemi non li avemmo con i kosovari, ma con gli albanesi residenti a Valona che non vivevano certamente in condizioni migliori. Infatti la tratta di persone con scafisti che portavano illegalmente persone in Italia, trasportavano anche droga e sigarette ed era l'attività più diffusa di contrabbando, dicendo in città che un gommone garantiva la tranquillità economica per 5 famiglie. Nel mio vagare per Valona per fare acquisti, pagamenti, incontri e riunioni avevo trovato solo case fatiscenti, strade piene di buche, ovunque polvere, macerie e sporcizia, carcasse d'auto ed immondizie bruciate e fra questi cumuli, ancora fumanti, si vedono giocare i bambini, pascolare capre e maiali. Ma anche il veloce zigzagare di automobili nuove fiammanti di grossa cilindrata, era un evidente e significativo contrasto di come funzionava l'economia locale.
Nella stessa discarica cittadina, in cui gli uomini dell'AMIAT di Torino con i loro due compattatori portavano i rifiuti del campo, si era costretti a vedere tutti giorni scenari incredibili che ebbi drammaticamente modo di osservare con i miei occhi.
Cumuli di immondizie alte come palazzi, dove tutto era riversato senza alcuna minima precauzione erano permanentemente fumanti, non solo per gli incendi appiccati, ma anche per nubi formate da prodotti in decomposizione o di prodotti chimici Gli odori erano nauseabondi e non vi era mascherina che potesse fermare tale lezzo.
Tra queste montagne di rifiuti di ogni genere, permanentemente vi pascolavano maiali, s'aggiravano cani randagi, bambini e adulti che scavavano tra i rifiuti appena arrivati, alla ricerca di qualcosa.
La discarica di Valona la ricordo come un girone dell'inferno dantesco.
Nei mercati e lungo la strada era normale vedere gli albanesi vendere oggetti che da noi tranquillamente si gettano. Solo aggirandoci per la città ci si rendeva conto che il "problema Kosovo" era un problema grosso, quanto quello dell'arretratezza dell'Albania.
Diversi volontari che erano usciti dal campo, erano rientrati scossi e commossi di fronte a tanta povertà, uno stato d'animo e un sentimento che si comprende solamente vedendolo e che le parole non sono in grado di descrivere.
In queste condizioni di vita, la criminalità era un fattore comune; tutti a Valona sapevano chi fossero gli scafisti e chi lavorava per loro, anche solo organizzando il trasporto delle persone in furgoncini o taxi.
L'immigrazione clandestina era una vera e propria attività imprenditoriale. Le partenze per l'Italia erano sulle spiagge, in città, sotto gli occhi spesso complici delle autorità locali. Gli scafi e i gommoni erano come dei taxi che partivano anche due volte al giorno, secondo le condizioni meteorologiche. Il viaggio durava normalmente dalle due ore e mezza alle quattro, dipendeva dalle condizioni del mare e dalla presenza di motovedette italiane che cercavano di limitare l'immigrazione clandestina. I clienti di questi scafisti erano kurdi, moldavi, montenegrini, ma anche i "montanari" albanesi.
Anche la mafia italiana era interessata agli scafisti, per il traffico illegale di armi-droga-prostitute. Ma era il traffico dei clandestini il vero motore dell'economia della città che sopravviveva grazie al loro lavoro.
Ci furono anche tentativi, da parte di criminali locali, di ingresso nel campo, alla ricerca di giovani ragazze da avviare sulla strada della prostituzione, favorite dallo stato di necessità che avevano molte famiglie, allettate dalle false promesse di una vita più facile e in agiatezza. Fortunatamente la presenza di forze di Polizia italiane e dei Militari italiani evitarono queste azioni. Gli stessi uomini kosovari erano molto attenti a che non vi fossero "sparizioni" dal campo.
Riuscimmo in breve tempo a stringere alcuni rapporti con le famiglie benestanti di Valona, questo ci garantì una maggiore sicurezza e furono anche validi collaboratori per la realizzazione e gestione di alcuni servizi.
La scuola funzionava a pieno ritmo, le attività di ricongiungimento famigliare lo stesso, i rapporti con la cittadinanza, anche favorita dall'acquisto in loco di tutto ciò che necessitava al campo, andavano bene. Grazie alla nostra presenza, infatti, anche l'economia albanese beneficiò di un relativo benessere indotto proprio per le ricadute sul commercio e sulle attività locali.
Ogni qualvolta uscivo dal campo era una continua scoperta, il caldo afoso, la polvere impregnava i vestiti e il sudore faceva il resto. Era facile avere le labbra screpolate e i capelli intrisi di polvere.
In queste condizioni entrare in alcune attività commerciali, dove non esistevano celle frigorifere o altri sistemi di raffreddamento e vedere sugli alimenti aggirarsi le mosche, non era molto igienico, anche se specie di zanzariere tentavano di limitare i danni.
Molto spesso era facile scorgere legati ai pali della luce pubblica, davanti alle macellerie, caprette e pecore, in attesa della macellazione. Spesse volte sulla via del ritorno questi animali non c'era più, in compenso un rivolo di sangue correva lungo la strada.
L'unico locale in cui c'era una parvenza di modernità, era l'Hotel Bologna, in cui alloggiavano i Militari e le Forze dell'Ordine italiane.
Valona, nonostante il massiccio afflusso di rifugiati, cercava di mantenersi ospitale.
Molto belli e stretti i rapporti che si erano creati tra il personale della missione, che quasi sempre si erano conosciuti direttamente al campo, ma anche tra i soccorritori e i rifugiati.
Il periodo di permanenza al campo, per lungo che fosse stato, mi sembrò brevissimo.
Il momento di lasciare il campo fu come staccarmi da qualcosa di importante, quasi un affetto. Il rientro verso casa fu un viaggio per riordinare i ricordi e per cercare di rientrare in uno stile di vita normale e non dedito alla sopravvivenza quotidiana.
Conserverò per sempre il ricordo di un esperienza ricca di stimoli ed insegnamenti. Solo in quelle occasioni apprezzi il valore delle cose più semplici, dell'aiuto reciproco e cosa voglia dire la parola umanità.
In Albania ebbi modo di conoscere molte persone, di cui in alcuni casi ho stretto intense amicizie che ancora oggi coltivo. Ho la certezza di aver ben interpretato il ruolo affidatomi e la speranza che quei kosovari che fuggirono dalla guerra, abbiano ritrovato casa e affetti. Spero che i bambini di allora siano oggi uomini e donne e che dalla loro tragica esperienza siano temprati nella vita e possano raccontare come sia difficile e necessario mantenere viva la memoria, per la conquista di una pace duratura.
Tante volte ho avuto il desiderio di ritornare in Albania e a Valona per rivedere quei luoghi, per comprendere quanto sia cambiato il Paese delle aquile. Ogni qualvolta che sulla televisione scorrono le immagini dell'Albania oppure ho modo di leggere qualche racconto su quegli anni e su quella Missione, rivivo quei momenti e mi ritrovo su quell'autobus del comune di Torino, che fu trasformato a ufficio mobile in cui passai una parte della mia vita.
La Missione Arcobaleno fu sicuramente una delle Missioni umanitarie meglio organizzate e che diede importanti aiuti e contribuiti sia al popolo kosovaro che albanese, ma soprattutto temprò e dimostrò il valore del volontariato italiano.