Blog di Dante Paolo Ferraris

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A zonzo con il calessino (XXVII parte)

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CalessinoAbbiamo appena passato l'incrocio che conduce a Miagliano, senza entrarvici, ma dalla strada si vede il corso del torrente Cervo e il ponte che conduce all'antico borgo.
La mia attenzione è però rivolta al greto del fiume, perché luogo di una antica vicenda storica. Questa racconta di Giovanna Monduro, moglie di Antonio o Antoniotto Monduro di Miagliano ma abitante a Salussola. Costei non era una persona molto stimata da parenti e vicina di casa. Alcuni affermavano che era troppo bella per essere una donna normale, altri affermavano che era troppo loquace ed invadente. La vicenda ha luogo nel 1470, quando Giovanna fu processata per stregoneria. Antonia Monduro, moglie di Guglielmino, chiamata a testimoniare, il 21 gennaio dichiara che Giovanna, l'anno precedente aveva profetizzato, durante un diverbio, che entro un anno sarebbe morto "il meglio" della famiglia di Martino Monduro. In seguito, a questa conversazione i due figli di Martino, rischiarono di soffocare Agostino, uno dei due figli morì.
I fratelli Martino e Guglielmino affermarono che spesso, la cognata Giovanna "lanciava maledizioni". Elena moglie di Martino Monduro, riferì che, in seguito alla morte di suo figlio, Giovanna aveva sostenuto che sapeva da tempo che il bambino non poteva vivere.
Durante la permanenza in prigione di Giovanna, un'altra donna accusata di stregoneria; Maddalena, dichiarò di averla vista in "stregheria". La "stregheria" era il luogo d'incontro delle streghe per il sabba.
Secondo le leggende biellesi e vercellesi, il ritrovo delle streghe con il diavolo era nei boschi vicino al fiume Sesia nei pressi di Vercelli o in una misteriosa landa, denominata "Brianco".
Giovanna, ripetutamente interrogata, anche sotto tortura negò ogni addebito. Il 18 febbraio, le tre figlie di Martino Monduro, testimoniarono al vicario del Vescovo e inquisitore per la diocesi di Biella, Nicola de Costantinis. Queste affermarono che un giorno uno sciame di Api erta entrato nel loro podere e subito si era diviso in due. Un gruppetto era entrato nella loro casetta. Mentre l'altro sciame si riunì a grappolo nel podere di Giovanna. Costei non potendo catturare le Api, s'inginocchio e dopo aver pregato, tutte gli animali sciamarono via e senza mai più tornarvi.
Il 20 febbraio, Giovanna fu nuovamente sottoposta a tortura e sfinita per il trattamento subito, confessò la sua iniziazione alla magia nera. Disse di aver calpestato il crocifisso, di aver bevuto dal "bariletto" e di aver copulato con un diavolo di nome Zen, di aver così rinnegato Dio. Dichiarò inoltre di aver ucciso e tentato di soffocare i bambini con l'aiuto della strega Maddalena.
La pratica del "bariletto" secondo quanto scrive nelle sue "prediche" San Bernardino da Siena, consisterebbe nel prendere un bimbo di un anno, lanciarselo da strega a strega, poi quando questo muore, farne polvere da mettere in un barilotto e poi bere da questo barilotto.
Sotto tortura fece altri nomi di presunte streghe, che poi ritrattò, affermando che sotto tortura era intontita.
Il 17 agosto 1470 presso un ruscello, vicino al torrente Cervo, ai confini di Miagliano, Giovanna fu bruciata viva.
Attraversiamo rombando, un altro ponte sul torrente Cervo, il calessino rosso attira l'attenzione di molte persone che rivolgono uno sguardo meravigliato e curioso al suo passaggio. Il nostro percorso ci porta verso Zumaglia, però anche questo ponte detto della Maddalena ha qualcosa da raccontare. Infatti il ponte poggia su un isolotto dove in antichità venivano eseguite le sentenze capitali e secondo la tradizione popolare si vuole che il 1 giugno 1307, vi fosse arsa viva, legata ad una colonna, Margherita da Trento, la compagna di Frà Dolcino, come venne chiamato dalla storiografia ottocentesca.
Di Dolcino da Novara, forse il suo vero nome fu Davide Tornielli, un predicatore del movimento dei dolciniani. Accusato di eresia dall'Inquisizione, fu catturato e arso sul rogo La vicenda di Dolcino suscitò l'interesse di diversi letterati nel corso dei secoli come Dante Alighieri, che lo descrisse nell'Inferno nel canto XXVIII ai versi 55-60. Siamo tra gli scismatici e seminatori di discordie e mentre Dante parla con Maometto dice:
Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi,
Tu che forse vedrai lo sole in breve,
S'egli non vuol qui tosto seguitarmi,
Sì di vivanda, che stretta di neve
Non rechi la vittoria al Noarese,
Ch'altrimenti acquistar non saria a lieve
Ma anche Nietzsche ne ha scritto, addirittura esaltando la figura di Dolcino come quella di un prototipo ideale del super-uomo, così come egli lo immaginava:
"Dolce e spietato, al di sopra di ogni miserabile morale, praticamente l'individuo che può porsi al di là del bene e del male".
In realtà la storia ufficiale è un po' diversa: Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo di Bergamo, quest'ultimo luogotenente di Dolcino, vennero catturati il 25 marzo e furono portati al castello di Biella. Qui le narrazioni si diversificano. La prima, quella popolare, vuole arsa lungo il corso del torrente Cervo solo Margherita; altra versione, forse la più credibile, vuole che costei venga arsa insieme a Longino. Ormai è certo, invece che furono diversi i tentativi di salvare la vita della donna, facendola abiurare. Dolcino fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna e successivamente fu condotto a Vercelli per essere, a sua volta, arso il 1 giugno del 1307 dopo essere stato sottoposto a terribili torture.
Lele e Stefano proseguono per Biella, mentre il nostro viaggio ormai è breve che già iniziamo a inerpicarci sulla stradina sterrata che conduce al castello. Essa è incorniciata da alberi ad alto fusto come faggi, castagni, roveri, roverelle, aceri e querce ma anche resinosi abeti e tassi. Il sottobosco è tappezzato da margherite, violette ranuncoli, veroniche ed erba cimicina.
Giungiamo con il calessino fin sotto le mura del castello, il potente e rombante mezzo a tre ruote non si è spaventato né davanti all'irta salita né al suo selciato fatto in pietre sconnesse. Il castello è posto in cima a Bric Zumaglia ma prima di entrarvi mi soffermo ad ammirare lo splendido panorama: si possono vedere molti paesi del Biellese orientale fino alle piane del Novarese, oltre alla zona risicola del Vercellese e verso il Monferrato.
È curioso sapere che il toponimo Zumaglia che dà il nome al sottostante paese, deriva da zumaja, che nel dialetto locale significa mammella. Infatti il Brich, dove si erge il castello è la collina gemella del monte Prevè, che viste dalla pianura sembrano due mammelle.
Questo territorio di Zumaglia nel Medioevo era assoggettato al Vescovo di Vercelli che ne affidò la gestione ai Signori di Buronzo. Comprendo facilmente perché qui fu edificato il primo castello: da questa posizione si può dominare buona parte del Biellese e del vercellese.
Le cronache raccontano che un primo castello fosse stato edificato durante l'episcopato di Lombardo della Torre, Vescovo di Vercelli dal 1328 al 1343. Con la sua morte, i signori di Valdengo, gli Avogadro, assalirono il castello, espugnandolo e misero in fuga il castellano e le sue truppe. Ma presto il possesso ritornò al vescovado.
Durante l'episcopato di Giovanni Fieschi, il castello venne ancora rinforzato, diventando luogo di rifugio del Vescovo, quando i rapporti con la comunità Biellese diventarono particolarmente tumultuosi. Soprattutto quando, nel 1377, la rivolta capeggiata dal canonico di Santo Stefano di Biella, Ardizzone Codecapra pose fine al dominio dei Vescovi di Vercelli sul biellese.
La Rocca di Zumaglia seguì la sorte di Biella e passò sotto il dominio diretto di Amedeo VI di Savoia detto il conte Verde. La gestione diretta del castello avvenne tramite castellani nominati dalla casa regnante e poi infeudato dalla famiglia degli Avogadro.
Nel XVI secolo il territorio di Zumaglia venne ceduto a Filiberto Ferrero Fieschi fino al 1620. Nel 1556 però il castello venne in gran parte distrutto durante un attacco d'artiglieria dalle truppe di Enrico II di Francia.
In questo contesto collochiamo, tra storia e leggenda, le vicende del capitano Giovanni Francesco Pecchio. Si racconta che Pecchio nel 1537 ricevette l'incarico di far eseguire una sentenza del Duca Carlo III contro Filiberto Ferrero Fieschi. Il capitano però fu rinchiuso da Fieschi per vent'anni nelle celle sotterranee del castello. Nel 1556, quando i francesi conquistarono il castello, sentendo i suoi lamenti lo liberarono dalla prigionia.
Un'altra versione della storia vuole invece che Pecchio fu fatto rapire da Filiberto Ferrero Fieschi mentre stava tornando a cavallo alla sua tenuta ad Asigliano. Si sarebbe trattato di una vendetta, dato che il Pecchio aveva fatto eseguire una sentenza di carattere finanziario contro di lui. Ferrero sparse la voce che il gentiluomo fosse rimasto ucciso dopo aver subito una rapina e il marchese non esitò ad accusare due poveracci, che sotto tortura confermarono un delitto mai commesso. I due furono poi impiccati.
Comunque sia, i francesi, abbattuto il muro che nascondeva il Pecchio, che veniva alimentato attraverso un foro creato nella parete, trovarono un uomo ormai in uno stato larvale e a fatica riuscirono a farsi raccontare le sue storie. Il Pecchio non sopravvisse a lungo e dopo tante sofferenze dovette subire anche l'umiliazione di non essere stato riconosciuto dalla sua famiglia. La moglie, che nel frattempo si era risposata, era morta durante la sua prigionia e i figli avevano sperperato e venduto il suo patrimonio.
Il castello ormai abbandonato e caduta in rovina, venne acquistato e ricostruito dal conte Vittorio Buratti nel 1931.
Vittorio Buratti era il primo di quattro fratelli di un'antica famiglia di industriali nel settore tessile del Biellese. Egli era impegnato nell'associazionismo cattolico. Sposò in seconde nozze Virginia Zanchi, anch'essa proveniente da una famiglia di industriali, che si occupavano della lavorazione e produzione di bozzoli da seta, nel Bergamasco. Il matrimonio, l'adesione al partito fascista, la ricostruzione del castello di Zumaglia gli valse nel 1942 il conferimento da parte di Vittorio Emanuele III del titolo di Conte della Malpenga.
L'unica parte originale dell'antico castello rimane quella inferiore. Tra i resti è presente la profonda cisterna per la raccolta dell'acqua e l'ipotetica prigione dove fu detenuto il capitato Giovanni Francesco Pecchio. Dal grande terrazzamento del castello si erge l'unica torre ricostruita. Essa è molto imponente, è di forma quadrata ed è stata realizzata in pietra.
Lele, nel frattempo ci ha raggiunti e con Gian si soffermano a parlare con gli attori di una compagnia teatrale che sta predisponendo uno spettacolo tra le mura e i cortili del castello, io mi aggiro sotto un piccolo porticato che unisce la torre al salone di rappresentanza e inizio a vagare per il grande terrazzo panoramico del piccolo maniero. Attraverso una scala accedo ad una seconda terrazza che funge anche da tetto. Essa è incorniciata da merli a coda di rondine e da questo luogo lo sguardo può spaziare a 360°, abbracciando l'intero arco alpino e tutta la pianura padana.
Ovviamente non può esistere un castello senza leggende e quello di Zumaglia ne ha tante. Una di queste me l'aveva racconta Lele. Parla del fantasma di una lavandaia che appare durante i temporali per stendere i panni macchiati di sangue che la pioggia non riesce però a lavare. Leggenda triste che ricorda le antiche tragedie e sventure che hanno visto il castello protagonista. Il cortile sottostante come il terrazzamento pare proprio indicato per disegnarci il cerchio magico delle masche e ben si adatta ai racconti che vuole in località "Al torrione" si riunissero in congrega le streghe per celebrare i loro Sabba.
Sceso dal terrazzo superiore del castello, Lele Giam mi hanno nel frattempo raggiunto ed entriamo nel salone che presenta un alto soffitto ligneo e un grande camino adornato con affreschi di paesaggi locali. Ancora oggi esso viene utilizzato per riscaldare gli ambienti come testimonia l'abbondante cenere. Le altre pareti sono affrescate con delle vicende che, credo, vogliano rappresentare la storia del castello.
Oggi il castello viene utilizzato per eventi culturali, tra cui mostre e spettacoli teatrali, oltre a ricevimenti.
Intanto che usciamo Lele mi racconta un'altra storia: nel 1384 durante un violento temporale un fulmine colpì una torre provocando un incendio. Il castellano resosi conto che le riserve d'acqua non erano sufficienti, ordinò di utilizzare il vino della cantina del Conte Amedeo di Savoia VII detto il conte Rosso. Chissà quali traversie dovette subire il castellano per aver utilizzato il vino del conte Amedeo VII, figlio del conte Verde?
Ancora, Lele mi racconta altre leggende che vedono come scenario questo territorio e il suo castello. Una di esse narra che vi siano dei passaggi segreti: uno unirebbe il castello al pozzo di San Girolamo, dove oggi sorge villa Sella, un secondo passaggio porterebbe verso il torrente Riasco ed altri condurrebbero più lontano.
Un'altra leggenda, è quella del fantasma del caprone. Un animale di impressionanti dimensioni che appariva ad un giovane mentre rincasava in tarda notte dopo aver fatto visita alla fidanzata. Talvolta appariva, invece del caprone, un enorme ariete che anch'esso, impennandosi ed emettendo mostruosi belati, obbligava il giovane innamorato a retrocedere. Altre volte, invece, compariva all'improvviso una fiamma infuocata che lo inseguiva. Si vuole che il caprone sia l'anima vagante del marchese Ferrero Fiaschi che morì dopo giorni di malattia con nascosto accanto al letto un diavolo. Esso, con delle allucinazioni, gli aveva fatto rivivere sulla sua pelle le crudeltà che il marchese aveva inferto all'intera popolazione e ai suoi antagonisti. La leggenda vuole che con la sua morte si aprì una voragine di fuoco che inghiottì il corpo del marchese, che non fu mai ritrovato.
Dopo aver visitato questa rocca mi rendo conto che, più dal castello stesso, sono rimasto affascinato
dalle storie e dalle leggende che lo riguardano.
Dobbiamo riprendere il nostro calessino e correre a tutta velocità a Biella, per passare un'altra bellissima serata in compagnia tra amici.



Fine XXVII parte.