Blog di Dante Paolo Ferraris

  • Aumenta dimensione caratteri
  • Dimensione caratteri predefinita
  • Diminuisci dimensione caratteri
Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Il Decameròn una storia travagliata

E-mail Stampa PDF
decameronIl Decameròn è uno di quei libri che ho poco amato studiare, non mi affascinava quella storia che mi sembrava banale, ma con il tempo mi sono appassionato ad esso. Una lettura sciolta, semplice, talvolta divertente. Una storia che benché collocata durante il tragico evento epidemico della peste del 1348, sembra attuale.
Forse, proprio la collocazione storica della narrazione ha poi appassionato la mia lettura. La peste nera si diffuse in fasi successive dall'altopiano della Mongolia, attraverso la Siria la Turchia e la Grecia. Nel 1347 arrivò in Sicilia e da lì a Genova. Nel 1348 aveva già infettato tutta la penisola italiana, allargandosi quindi al resto d'Europa. A partire dal 1353, i focolai della malattia si ridussero fino a scomparire.
Secondo studi moderni, la peste nera uccise almeno un terzo della popolazione del continente,verosimilmente quasi 20 milioni di vittime. Benché il batterio della Yersinia pestis, sia stato isolato solo nel 1894 è solo da allora la peste è diventata curabile; all'epoca era effettivamente considerato un flagello divino. L'infezione della peste ieri come oggi, si trasmette generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. La malattia si manifesta nella forma bubbonica, setticemica o polmonare.
La misteriosa epidemia trovò una risposta popolare come una volontà di Divina e di conseguenza nacquero diversi movimenti religiosi, tra cui uno dei più celebri fu quello dei flagellanti. Il termine peste deriva dal latino pestis, "distruzione, rovina, epidemia" ed indicava nel Medioevo molte malattie caratterizzate da alta mortalità e diffusione, come il colera, il vaiolo ecc... Conseguentemente l'espressione peste nera nacque dall'osservazione dei sintomi che provocava sulle persone, come la comparsa di macchie scure e livide di origine emorragica nei malati.
L'epiteto trecentesco di Morte nera (mors nigra) venne utilizzato per la prima volta nel 1350 da Simon de Covino (o Couvin), un astronomo belga autore del De judicio Solis in convivio Saturni, un componimento in cui ipotizzò che il morbo fosse l'esito di una congiunzione tra Saturno e Giove. Ma già nel trattato del XII secolo De signis et sinthomatibus egritudinum del medico francese Gilles de Corbeil il termine atra mors era stato usato per riferirsi alla febbre pestilenziale (febris pestilentialis). Il contesto demografico di inizio XIV secolo è molto importante per analizzare la diffusione del contagio. Infatti erano molte le città europee che avevano oltre 10.000 abitanti ed alcune addirittura anche 10 volte tanto: ad esempio in Italia, Milano aveva una popolazione di circa 150.000 persone, mentre Venezia e Firenze raggiungevano i 100 000 e Genova 60.000. E' da considerare, inoltre, che l'aumento della popolazione nelle città e la carestia nelle campagne dovuta anche un generale abbassamento delle temperature, passato poi alla storia come "piccola era glaciale", nei primi decenni del Trecento portò alla morte anche del 10% della popolazione, indebolendo di fatto il sistema economico e produttivo. Ma fu un secolo di carestie in quanto diverse se ne succedettero negli anni seguenti; si ricordano le carestie del 1338 e del 1343 che interessarono maggiormente l'Europa meridionale. Ad aggravare ulteriormente la situazione, nel 1337 tra il regno di Francia e il regno d'Inghilterra scoppiò una guerra, destinata a durare oltre un secolo. Ciò provocò un drastico trasferimento della popolazione dalla campagna alla città. Questa massa di contadini e villani che si riversò nelle città, provocò non solo sovrappopolamenti, ma aumentò le condizioni igieniche già assai precarie, oltre a problemi di sussistenza in quanto i campi erano ormai abbandonati e conseguentemente sempre meno alimenti arrivavano in città. Inutile ricordare che le città erano prive di fognature, i rifiuti giacevano abbandonati per strada, ed è in questo quadro che nell'ottobre del 1347 la peste trovò le condizioni ideali per scatenare una pandemia. La peste bubbonica giunta in Europa, detta la peste nera si diffuse assai rapidamente seguendo le rotte commerciali continentali più frequentate. La peste fece sì che la medicina medievale si affrancasse dalla tradizione galenica. Ad esempio con le bolle pontificie di papa Sisto IV e di papa Clemente VII fu consentito il sezionamento dei cadaveri, pur di scoprire le cause dalla malattia. Il medico fiammingo Andrea Vesalio fu uno dei primi a intraprendere lo studio autoptico del corpo umano con intento metodico, un primo passo in direzione della medicina moderna e della scienza empirica. Se all'epoca i medici non possedevano conoscenze sufficienti per identificarne la causa ne i rimedi, ciò trovava risposta con la soventemente attribuzione a significati religiosi. Impossibile, all'epoca capire che il microrganismo, una volta penetrato attraverso la cute, raggiungeva i linfonodi ingrossandoli e causando i caratteristici "bubboni", diventando letale quando raggiunto il flusso sanguigno arrivava ai polmoni. I sintomi più frequenti erano e sono, la febbre elevata, mal di testa, dolori articolari, nausea e vomito, oltre ai già citati bubboni, che si sviluppano poi negli stati più avanzati con letargia, dispnea e allucinazioni. I medici dell'epoca, rimasero disorientati in quanto le teorie mediche risalivano all'antichità, ossia a Ippocrate e Galeno. Secondo costoro le malattie nascevano da una cattiva miscela dei quattro umori del corpo: sangue, flemma, bile gialla e bile nera. I medici del tempo decisero che l'origine del male era l'aria umida e fredda che ci fu nella primavera 1348 e ciò era dovuto alla congiunzione di Giove, Saturno e Marte, avvenuta tre anni prima. Asserzione sostenuta da vari studiosi, tra cui Guy de Chauliac e Gentile da Foligno, il quale morì di peste dopo aver elaborato la teoria del Soffio pestifero. Teoria che assunse grande autorevolezza quando la facoltà di medicina dell'Università di Parigi, che incaricata da Filippo VI, redisse una relazione sulle cause dell'epidemia, confermando la teoria dell'influenza malattia alla congiunzione astrale. Altri medici attribuirono la responsabilità a fenomeni terrestri, come un terremoto, un'eruzione vulcanica ecc... asserendo che lo sconvolgimento dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) potesse comportare eventi nocivi. Oppure la consideravano un castigo divino, ed altri pensavano che il morbo provenisse dall'Oriente e fosse stato causato da un fuoco, caduto dal cielo che espandendosi diffondeva il morbo. Veniva proposto per evitare il contagio, il rifugiarsi in campagna, come nel caso del Decameròn del Boccaccio. Il medico fiorentino Tommaso del Garbo consigliava di arieggiare bene le stanze, di lavarsi con aceto e acqua di rose, di mangiare"cibi buoni" e di astenersi dai rapporti sessuali, i quali stimolavano gli "umori" corporei. Ma anche ingoiare pietre preziose dal presunto potere taumaturgico. Le terapie erano quelle galeniche: salassi e cauteri, ossia in questo caso incidendo e cauterizzando i bubboni con un ferro rovente. Le sostanze usate come "farmaci" erano erbe, come l'ersicaria, lo zafferano, la verbena ecc…, ma anche pietre, come smeraldi e zaffiri. Terapia per curare la peste, ovviamente per gli abbienti, era un famoso rimedio, assai complesso da assumere in quantità di 1 dracma ogni mattina a digiuno, di oltre 40 elementi, tra cui: ginepro coccole, garofani, mace, noce moscata, gengiouo, zedoaria, aristolochia lunga e ritonda, genziana, tormentilla, ditamo bianco radice, helenio, been rosso e bianco, ghiaggiuolo, doronici e ruta, menta, alloro coccole, basilico e cedro semi, incenso, bolo armeno, terra sigillata, avorio limatura, corno d'Alicorno, perle, coralli rossi e bianchi, rubini, topazi, zaffiri, giacinti, conserva di rose, tamarindo. Per la purificazione dell'aria dai morbi si ricorreva alla calefazione, ossia grandi fuochi con unguenti, resine e erbe aromatiche eliminando dall'aria i miasmi diffusori del male dai corpi in putrefazione. Anche se molti medici di fronte alla peste fuggivano, come riferisce il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani in Cronaca fiorentina:
«Medici non se ne trovavano, perocché moriano come gli altri; e quelli che si trovavano, voleano smisurato prezzo in mano innanzi che intrassero nella casa, ed entratovi, tocavono il polso col viso volto adrieto, è da lungi volevono vedere l'urina con cose odorifere al naso.»
Per cercare di contenere l'epidemia, i vari governi delle città italiane incominciarono a nominare funzionari addetti alla salute pubblica, come a Firenze, Venezia e Pistoia. Furono ordinate la chiusura dei mercati e proibiti i funerali. A Milano le case dei primi appestati vennero sprangate con i malati dentro, impedendo l'uscita di costoro. A Ragusa, attuale Dubrovnik, le navi provenienti da zone infette dovevano aspettare un mese, prima di poter entrare in porto. A Pistoia venne istituito nel 1348 il primo corpo di beccamorti. Quasi tutti i contemporanei ritenevano che la peste fosse un volere di Dio, conseguentemente molti cercarono conforto e giustificazione nella religione. I cristiani vissero la pandemia ritenendola un castigo per i propri peccati, invece i musulmani accettarono la malattia con rassegnazione, arrivando a considerarla un dono che avrebbe consentito alle vittime di entrare immediatamente nella " Janna", il paradiso musulmano. In Occidente nacquero movimenti religiosi e la vita quotidiana fu segnata da rogatorie e processioni. Si edificarono chiese votive e altri monumenti, come le cosiddette "colonne della peste", nella speranza di placare il flagello. Nacquero anche movimenti religiosi di estrema di penitenza e devozione, che praticavano l'autoflagellazione durante cortei processionali, ritenendosi ispirati da Dio. Nonostante tali pratiche fossero stati banditi pubblicamente da papa Clemente VI si diffusero rapidamente. Non mancarono inoltre interpretazioni alternative e fantasiose e nella ricerca di un colpevole e di un untore, ne fecero le spese gli ebrei. La peste nera ebbe un forte impatto nella società del tempo, tanto che la popolazione arrivò a colpevolizzare e talvolta a ritenere responsabili del contagio gli ebrei, miscredenti dediti al profitto, come venivano additati, dando luogo a persecuzioni e uccisioni. In Provenza con l'arrivo della malattia gli ebrei divennero rapidamente il bersaglio preferito: a Tolone e Barcellona ci furono massacri e saccheggi causati dall'isteria generale della popolazione, nonostante le autorità si mossero in loro difesa come papa Clemente VI che asserì che la malattia non era dovuta all'intervento umano ma aveva una causa naturale o divina ed emise due bolle pontificie con cui condannò le persecuzioni contro gli ebrei scomunicandone i responsabili. Ma l'accusa che gli ebrei avvelenassero fonti e pozzi cominciò a circolare nell'estate del 1348, tanto che in Savoia furono posti sotto tortura alcuni ebrei. Nel tentativo di bloccare questa caccia all'untore ebreo, il papa emanò una seconda bolla in cui sottolineo come anche gli ebrei morissero a causa della peste e ne ribadiva l'innocenza. A Strasburgo il governo cittadino, dopo essere stato esautorato perché aveva tentato di proteggere gli ebrei, fu teatro di un orrendo rogo dei circa 2000 ebrei, che ebbe luogo nel febbraio 1349, quando la peste ancora non aveva raggiunto la città. L'autorità ecclesiastica e civile, anche per l'inefficacia delle misure messe in campo contro il contagio era in difficoltà e aveva perso credito. Nel Decameròn Giovanni Boccaccio scrisse: «E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare».
Anche la cultura fu notevolmente influenzata, benché la maggior parte delle opere d'arte legati alla peste nera vennero realizzate successivamente agli anni della pandemia. Fa eccezione Giovanni Boccaccio che utilizzò come narratori nel suo Decameròn dieci giovani fiorentini fuggiti dalla loro città appestata. Nell'arte della pittura, il soggetto della "danza macabra" fu un tema ricorrente delle rappresentazioni artistiche anche per tutto il secolo successivo. La cosiddetta "danza macabra", uno dei temi iconografici più frequenti dei primi decenni del XV secolo, è la rappresentazione di una danza tra uomini e scheletri. La più famosa fu sicuramente la Danza macabra di Lubecca, opera del pittore Bernt Notke, purtroppo andata perduta a seguito di un bombardamento nel 1942. Anche in Italia, in molti edifici religiosi di epoca medioevale fu spesso affrescata la Danza macabra. In musica, il tema venne ripreso da Franz Liszt in Totentanz (danza macabra), composta tra il 1834 e il 1859. Anche Francesco Petrarca, amico di Boccaccio, fu coinvolto dall'epidemia, infatti molti dei suoi amici morirono a causa del morbo e tra questi vi fu anche la Laura protagonista del Canzoniere. Il Petrarca, una delle voci più eloquenti del suo tempo, parlò a nome di un'intera generazione di sopravvissuti alla peste, dopo la pandemia del 1346-53 scrisse Ad seipsum, un epistola scritta in latino, in cui descrisse cosa accadeva a Firenze in quel periodo: "L'anno 1348 ci lasciò soli e indifesi", dichiarò all'inizio delle sue Epistole, "una città piena di funerali" e di case vuote, ecc… Argomento poi ripreso nell'egloga IX, Querulo, contenuta nei Bucolicum carmen, sempre di Petrarca, dove immagina un dialogo tra Filogeo e Teofilo e affidò le proprie riflessioni sulle conseguenze del male causato dalla peste e su come vivere al meglio il tempo rimanente per guadagnarsi il Paradiso.
Il Decameròn si ritiene sia stato scritto tra il 1350 e il 1353, questa è una raccolta di cento novelle, ambientata in una casa di campagna posta sulle colline fuori Firenze, a breve distanza dalla città. Dopo una ampia premessa narrativa sull'impatto della peste nella medioevale città di Firenze, la raccolta di novelle narra di sette giovani donne e tre giovani uomini che si incontrano per caso nella chiesa di Santa Maria Novella, e decidono di sfuggire alla peste ed ai suoi effetti, che infuria in città tra la primavera e l'estate del 1348, ritirandosi insieme in un Locus amoenus, in una casa di campagna.
In dieci giorni di permanenza, i dieci ragazzi narratori, alternano vari passatempi: danze, musiche, conversazioni ed altri giochi a narrazioni di novelle che saranno Cento. Da qui il nome Decameròn cognominato (ossia sottotitolata) prencipe Galeotto, in riferimento alla vicenda dantesca di Paolo e Francesca la cui passione è assecondata dalla lettura di Tristano e Isotta. (Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse): «Comincia il libro chiamato Decameron, cognominato prencipe Galeotto. Nel quale si contengono cento novelle in diece dì decte da septe donne e da tre giovani huomini.».(Decameròn, p. 1).
Il Decameròn letteralmente dal greco antico "di dieci giorni", nel senso di opera ambientata in dieci giorni. A margine ricordo che il tempo effettivo trascorso fuori città dai giovani è di quattordici giorni, poiché il venerdì è dedicato alla preghiera e il sabato alla cura personale delle donne.
Boccaccio narra che per occupare le prime ore pomeridiane, i ragazzi decidono di raccontare quotidianamente una novella ciascuno, tranne il venerdì ed il sabato, seguendo un preciso regolamento. Ogni giorno viene eletto un re o regina che fissa il tema della giornata, a cui lui e tutti gli altri devono ispirarsi nei loro racconti. Al solo giovane Dioneo, proprio per la sua giovane età, è concesso di non rispettare il tema stabilito, tuttavia dovrà novellare (narrare la novella) sempre per ultimo (Privilegio di Dioneo). Solo la prima e la nona giornata hanno un tema libero. I nomi attribuiti ai 10 protagonisti sono assai particolari e tutti comunque, a mio parere legati alle novelle che racconteranno: Filostrato, Dioneo, Panfilo, Elissa, Emilia, Fiammetta, Filomena, Lauretta, Neìfile e Pampìnea. Il Boccaccio con quest'opera voleva dimostrare ai fiorentini che, se si ha il giusto spirito, è possibile rialzarsi da qualunque disgrazia si venga colpiti, proprio come fanno i dieci ragazzi nei confronti della peste. Inoltre il rispetto e i riguardi che Boccaccio mostra nei confronti delle donne è ben evidenziato quando scrive che quest'opera è dedicata a loro, visto che le donne, a quel tempo, erano le persone che leggevano maggiormente e avevano più tempo per dedicarsi alla lettura delle sue opere.
Il tema dell'amore trova spazio in gran parte delle novelle ed assume anche forme licenziose e che all'epoca suscitò reazioni negative da parte di un pubblico retrivo. Per questo, Boccaccio, nell'introduzione alla IV giornata e nella conclusione all'opera, rivendicherà il diritto ad una letteratura libera ed ispirata ad una concezione naturalistica dell'Eros. Infatti nella IV giornata, in cui era Filostrato il re, Boccaccio inizia la giornata con "apologo delle papere", riassunto: A Firenze vive un umile uomo di nome Federico Balducci, ma con un'attività ben avviata. E' sposato con una donna che ama molto ma che purtroppo muore lasciandolo nello sconforto e con un figlio di due anni. Non riuscendo a rassegnarsi alla perdita della moglie, lascia tutti i suoi averi ai poveri e si ritira come eremita insieme al figlioletto in una grotta del monte Asinaio, dove conduce una vita di elemosine e preghiere. Tiene il figlio isolato, gli insegna solo a pregare e gli parla solo di Dio e dei Santi. Quando il figlio ne compie diciotto lo conduce a Firenze per vedere la città. Federico è consapevole che il figlio ormai è adulto ma pensa anche che è abituato da sempre a servire Dio, e che niente potrebbe distrarlo. Arrivati a Firenze è stupefatto nel vedere tante cose nuove come le case, i palazzi, le chiese. Quando incontrano un gruppo di giovani e belle donne che ritornano da una festa di nozze il ragazzo chiede cosa siano ed il padre gli risponde che sono una cosa cattiva. Il figlio chiede ancora come si chiamino quelle cose cattive, e il padre risponde che si chiamano «papere». Il figlio gli risponde che le papere sono bellissime, come gli angeli dei dipinti e chiede al padre di portarne una con loro, assicurando di prendersene cura e di imbeccarla tutti i giorni. Il padre, pentendosi di averlo portato con sé a Firenze gli risponde che non vuole prenderne una perché il figlio non sa come si imbeccano. A fine il racconto Boccaccio spiega che se un giovane che non ha mai visto una donna, rimane talmente affascinato dal suo dolce viso e dalla sua grazia, lo stesso vale per qualunque uomo, anche per lo stesso Boccaccio e perfino per uomini ancora più anziani che, anche se hanno i capelli bianchi, sentono ancora gli impulsi amorosi. Ne sono testimoni Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Cino da Pistoia che, anche da vecchi, hanno sempre desiderato essere graditi alle donne e che quindi non saranno le calunnie degli invidiosi a farlo desistere dal continuare a scrivere le sue novelle.
I Temi delle dieci giornate del Decameròn scelte dai re e dalle regine sono: il potere della fortuna che travolge gli uomini ma li conduce a esiti positivi ( Filomena – regina); Il potere dell'ingegno che permette di conquistare ciò che si desidera o di recuperare ciò che si era perso ( Nefile – regina); Amori infelici (Filostrato – re); Amori a lieto fine ( fiammetta – regina); L'efficacia delle risposte pronte ed argute che risolvono situazioni pericolose ( Elissa- regina); Le beffe ai mariti (Dioneo – re); Le beffe (Lauretta – regina); Esempi di cortesia e magnanimità (Panfilo – re). Mentre gli altri due sono di libera scelta. La lettura del Decameròn è sciolta e divertente e se anche il Boccaccio dedica la lettura al sesso femminile molti racconti riguardano tutti; infatti la concezione della vita morale si basa sul contrasto tra Fortuna e Natura per l'uomo. La Fortuna lo condiziona ma che può volgere a proprio favore, mentre la Natura, con i suoi istinti e appetiti si applica con intelligenza come forza primordiale. L'amore per Boccaccio è una forza insopprimibile, motivo di diletto ma anche di dolore. Ma Nel Decameròn si tratta anche il tema della follia che si intreccia con altre tematiche, come quella della beffa e quella della follia per amore, per la quale uno dei due amanti giunge fino alla morte. Infatti nella IV giornata vengono narrate novelle che trattano di amori che ebbero infelice fine dove la morte di uno degli amanti è inevitabile. Piacevole rileggere la novella di Ser Ciappelletto della prima giornata I, novella 1, o anche nella giornata V, novella 9 con Federigo degli Alberighi che rinuncia a tutti i propri averi, anche al simbolo della nobiltà, al fine di conquistare la donna da lui amata. Oppure la Badessa e le brache del prete nella giornata IX, novella 2. E se il Decameròn anticipa l'Umanesimo quattrocentesco, dove l'uomo e la sua intelligenza è considerata una dote umana è l'amore considerato come sentimento naturale, la Censura sul testo si fece successivamente sentire, più dei denigratori che Boccaccio affronto con sapienza nella sua epoca.
Infatti a partire dalla metà del XVI secolo il sistema di controllo delle scritture per contrastare l'eresia mise al bando il Decameròn, iscrivendolo nell'Indice dei libri proibiti: «Boccacci Decades seu novellae centum quae hactenus cum intolerabilibus erroribus impressae sunt et quae posterum cum eisdem erroribus imprimentur.» ossia «Le decadi di Boccaccio o Cento Novelle che finora sono state stampate con errori intollerabili e che in futuro saranno stampate con i medesimi errori.». L'Indice dei libri proibiti fu istituito da Papa Paolo IV nel 1559 affinché «...Per niun modo si parli in male o scandalo de' preti, frati, abbati, abbadesse, monaci, monache, piovani, provosti, vescovi, o altre cose sacre, ma si mutino lj nomi; o si faccia per altro modo che parrà meglio».
Tanto che nel 1573 l'Inquisizione commissionò a degli esperti fiorentini il compito di "sistemare" il testo fiorentino per eccellenza. Dopo che la censura di tipo linguistica e filologica fu fatta dagli esperti che cercarono di salvare il più possibile il testo originale e quella più severa fatta dalla chiesa di Roma, il Decameròn così ridotto fu ridato alle stampe nel 1574 accompagnato da Le Annotazioni di discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron. Questa era una raccolta di considerazioni linguistiche e filologiche che cercavano di giustificare le scelte fatte durante le singole fasi della rassettatura. Il "nuovo" Decameròn si ritrovò poco dopo di nuovo proibito dalla stessa Inquisizione, e conobbe perciò solo un'edizione. I revisori ( questi esperti chiamati deputati) secondo l'Inquisizione avrebbero trascurato la morale, soprattutto sessuale, lasciando troppo correre sulla lascivia del testo. Il Decameròn conobbe nel 1582 un'altra edizione curata da Leonardo Salviati che modificò, pesantemente il testo. L'operazione di Salviati risparmiò solo 48 novelle, mentre ne modificò 52. Chissà se fosse stato al mondo ancora il Boccaccio cosa avrebbe detto o scritto su questi interventi postumi a una raccolta di novelle specchio della sua epoca.
Una lettura che è a mio parere un capolavoro, uno spaccato della società del tempo, tra la tragedia della peste e l'ideale di vita aristocratica basata sull'amor cortese, la magnanimità, il tutto raccontato come la commedia umana della vita.